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Gazzetta Italia 108

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Gazzetta Italia 108 (dicembre 2024 – gennaio 2025)

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Il numero 108 si apre con un imperdibile articolo sulla celebre discesa a Roma nel 1700 della regina Maria Casimiera, con al seguito un ampio spaccato della corte polacca. E Il bel testo “Marysienka a Roma” di Francesca Ceci si potrà anche ascoltare, letto dall’autrice, grazie al podcast online accessibile con il QRcode che trovate su Gazzetta Italia. A seguire i blogger di un “Tavolo per due” ci raccontano alcune delle loro mete preferite dell’Italia, il Paese che ha cambiato non solo le abitudini di viaggio ma anche la loro vita privata! Gazzetta poi si conferma sempre anticonformista e all’avanguardia proponendovi una lunga intervista al professore di Filosofia dell’Università di Venezia Gian Luigi Paltrinieri che ci parla tra l’altro di giovani e intelligenza artificiale, di linguaggio nell’era della globalizzazione, di turisti e viaggiatori. Lettura assolutamente da non mancare! Ma non vogliamo anticiparvi tutti i titoli che troverete sul nuovo numero in cui tra l’altro inizia, con l’intervento della chef Cristina Catese, la collaborazione con la sezione polacca della Federazione Italiana Cuochi che ci regala anche la ricetta dello chef Fabio Pantano. Insomma correte negli Empik, o scrivete a redazione@gazzettaitalia.pl, per prendere la vostra copia di Gazzetta Italia!

(Numero 108 disponibile da lunedì 9 dicembre)

Asiago – altopiano delle meraviglie

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Vista da vetta Caldiera

Fino allo scorso luglio parlare di Asiago per me, e per un altro paio di inguaribili giocatori, era soprattutto sinonimo di feroci battaglie a Risiko. Quell’irresistibile gioco da tavolo capace di tenerti per ore concentrato in strategici spostamenti, ritirate tattiche e furiosi attacchi. Ma cosa c’entra Asiago con il Risiko? Il problema è che siamo degli eterni adolescenti. Ancor oggi come ai tempi del liceo e dell’università – quando ci trovavamo una volta la settimana a giocare a casa mia o del caro amico Carlo, distanti poche centinaia di metri l’una dall’altra in zona Zattere a Venezia – continuiamo a incontrarci, sempre gli stessi, almeno una volta l’anno con i dadi in mano pronti a dichiarare: “attacco la Kamchatka”! 

Carlo dopo l’università si è trasferito in una splendida villa ad Asiago che ha trasformato, insieme alla sua infaticabile compagna di vita Donata, nell’accogliente B&B Ai Tre Larici che da anni ospita i nostri weekend di Risiko, in cui 3-4 attempati uomini, con sottofondo di musica pop anni 80, si chiudono in salotto a giocare senza tregua; uniche soste concesse per mangiare, dormire e andare al bagno.

“Ma quand’è che vieni su ad Asiago e ti fermi qualche giorno anche senza il Risiko?”, mi ripetevano da anni Carlo e Donata che giustamente vanno fieri dell’altopiano delle meraviglie, in cui la bellezza del paesaggio si interseca con la storia, in particolare della Prima Guerra Mondiale, che ha segnato indelebilmente queste terre. Sia chiaro, l’altopiano di Asiago è famoso, non è che non conoscessi proprio nulla ma diciamo non mi ero mai veramente dedicato a esplorarlo. 

La svolta di luglio è stata strategicamente concertata da Donata che invitandomi a presentare il mio racconto “Corte Polacca” (edito da Austeria), nell’elegante palazzo del Municipio di Asiago sapeva che mi avrebbe trattenuto qualche giorno. E così è stato!

Nella prima uscita, insieme ai compagni di viaggio Agata, Alessandro, Ania e Stefko, abbiamo risalito l’Ortigara, cima (2.106 metri), al confine tra Veneto e Trentino Alto-Adige, famosa per l’omonima cruenta battaglia che, tra il 10 e il 29 giugno del 1917, vide impegnati ben 400 mila soldati dei due schieramenti: italiano e austroungarico. Eventi che vengono ricordati con numerose targhe lungo la salita nel bosco di pino mugo dove si incontrano la chiesetta Lozze, il punto d’appoggio “Baito Ortigara” e alcuni tratti di trincea prima di raggiungere la vetta dove nel 1920 fu posta una colonna mozza con l’iscrizione “Per non dimenticare”. 

Nonostante la fatica, dopo aver raggiunto la vetta dell’Ortigara, ci siamo lanciati – col cuore, più che col fisico – verso l’altra vicina cima Caldiera (2.124) dove siamo giunti stremati alla meta ma felici prima di intraprendere la strada del ritorno e presentarci la sera a Carlo e Donata orgogliosi di poter raccontare d’aver completato l’intero percorso.

Il giorno seguente, con ancora un po’ di acido lattico nelle gambe, abbiamo raggiunto in auto il rifugio Larici “Da Alessio” a 1658 metri da cui abbiamo preso un sentiero ad anello che dopo averci portato su in alto a Cima Larici ci ha ricondotto, affamati, al rifugio dove ci siamo ampiamente rifocillati con zuppa di montagna, grigliata di carne mista con polenta e ovviamente crostata di mirtilli e caffè!

Provati dalle camminate dei giorni precedenti per la terza escursione abbiamo deciso di visitare il Forte Corbin raggiungibile in auto. Situato in prossimità del Monte Cengio e del paese di Treschè Conca, il Corbin fu uno dei forti italiani che costituivano la linea difensiva sulle Prealpi vicentine. Costruito a partire dal 1906 su uno sperone di roccia proteso sulla Valle dell’Astico con lo scopo di difendere la vallata da eventuali invasioni austroungariche, il Corbin in realtà ebbe un ruolo marginale nel conflitto. Abbandonato fin dagli anni Venti del secolo scorso il Forte Corbin è stato, dopo la Seconda Guerra Mondiale, restaurato e valorizzato dalla famiglia Panozzo, che lo ha reso un interessante museo sulla Prima Guerra Mondiale. Il Forte oltre a mostrare la pianta e gli interni della struttura militare, che seppur a cielo aperto sono ben conservati, offre anche panorami incredibili e un piccolo ma interessante museo con oggetti della guerra 1915-1918.

Municipio di Asiago

L’intensità di questa tre giorni asiaghese non è comunque riuscita a scalfire l’attenzione che dedico a tutto ciò che ha un’attinenza con la Polonia, così segnalo con piacere come molte iscrizioni e targhe commemorative sull’Ortigara riportano anche la traduzione in polacco, cosa che mi ha fatto ricordare che tra Italia e Polonia durante la prima Guerra Mondiale ci fu una sorta di intesa segreta che spinse molti polacchi a disertare dall’esercito austroungarico per unirsi agli italiani nella speranza, poi realizzata, che la sconfitta di Vienna aprisse le porte alla rinascita dello stato polacco. 

Parlando poi dell’asiaghese più famoso, ovvero il celebre scrittore Mario Rigoni Stern, autore tra l’altro del capolavoro “Il sergente della neve” in cui racconta la complicata, dolorosa, ritirata dalla Russia durante la Seconda Guerra Mondiale, mi è saltato subito all’occhio che, dopo l’armistizio firmato dall’Italia con gli Alleati, il sergente Rigoni Stern fu incarcerato con i suoi uomini nel campo di concentramento a Olsztynek da dove, dopo due anni di prigionia, fu liberato dall’avanzata dell’Armata Rossa. Così dalla Masuria raggiunse la lontana Asiago a piedi. 

Ma la Polonia, manco farlo apposta, torna protagonista anche l’ultima sera: cenando con Carlo e Donata ci raccontano che quando i figli erano piccoli hanno avuto per qualche anno il fondamentale supporto di Agnieszka una indomita ragazza di Katowice che con la medesima cucinava zuppe polacche e spalava neve alleviando non poco la quotidianità di Carlo e Donata. 

Chiesa Lozze

Ammetto che siamo ripartiti da Asiago con la sensazione d’aver appena iniziato a scoprire questo eccezionale territorio caratterizzato da innumerevoli sentieri di montagna da scoprire, tra malghe, laghetti, trincee e forti. Un’offerta naturalistica attraente in ogni stagione – d’inverno si può sciare e far ciaspolate – arricchita da un intenso programma d’appuntamenti culturali tra cinema, presentazioni di libri e concerti, e da altre attrazioni tra cui merita sicuramente una visita anche l’osservatorio, uno dei più importanti d’Italia, che ci fa scoprire i segreti della nostra galassia. Una terra generosa anche di prodotti agroalimentari tra cui spicca il celebre formaggio Asiago Dop, esportato in tutto il mondo, oltre al miele e alle marmellate.

Se volete togliervi gli ultimi dubbi sul fatto che valga la pena visitare Asiago (e se andate Ai Tre Larici la sera potete pure giocare a Risiko!), date un’occhiata al sito.

Forte Corbin

Chi dice, chi tace e chi si dimentica le domande

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Chiara Valerio e Sebastiano Giorgi

Venezia è tuttora un ricettacolo di fermenti intellettuali. Le disgraziate politiche amministrative, incapaci di difendere la residenza e di mantenere la deriva turistica in una dimensione sopportabile, non sono però riuscite a scalfire, almeno finora, l’irresistibile fascino attrattivo che la città esercita su chi ama e vive di arte, scrittura, musica, cinema. E così nell’ultima domenica del torrido agosto veneziano ho avuto la fortuna d’incontrare al bar Chiara Valerio scrittrice, curatrice editoriale, direttrice artistica e conduttrice radiofonica, di cui mi piace ricordare anche la straordinaria orazione funebre per l’amica Michela Murgia.

Seduti al tavolino sembravamo un po’ la copertina dell’album “Una donna per amico” del mitico Battisti, ma mentre Lucio, che incise quel LP nella capitale inglese, si fece fotografare al londinese Grapes’s Caffè, noi ci siamo incontrati in Campo Santa Margherita al bar Duchamp, e per coerenza al pittore francese la nostra conversazione ha preso una piega dadaista. Doveva essere una intervista ma io non ho fatto domande, Chiara non ha dato risposte e ognuno ha parlato di ciò che gli passava per la testa.

Ho cominciato senza domanda: “Cito una tua frase: i romanzi sono il contrario della tifoseria, perché leggi ma non devi prender posizione, ti abitui a non fare confusione tra autore e opera”.

“Ho appena riletto le Particelle elementari di Michel Houellebecq. Mi domandano come si faccia ad amare un uomo che scrive di donne che sono vittime di orge, mi chiedo se è tanto peggio della figura femminile che esce dal verismo italiano o dal naturalismo francese, uccise da lavoro e da doveri asfissianti”, risponde Chiara con quello sguardo intriso di lucida tensione che stimola l’interlocutore ad utilizzare il 100% dei neuroni per provare a restare aggrappato alla velocità di pensiero di Chiara, al suo parlare per metafore e simbologie.

“Noi dobbiamo restare fedeli alla pagina, uno scrive una cosa e quella vuole dire punto. Non dobbiamo tirare il testo in interpretazioni che si allontanano dal senso della parola scritta. Sovrapporre autore e opera è una forma d’analfabetismo culturale, pensiamo che uno possa scrivere solo di quello di cui ha fatto esperienza diretta? Ma davvero? E quello che una persona ha immaginato, sentito, letto, scritto, desiderato dove va a finire? È come se volessimo abbattere il valore del linguaggio, noi abbiamo cominciato a parlare per comunicare e quello che dicevamo era credibile ma non per forza vero”.

Provo a sintetizzare: “la scrittura è figlia di quello che è l’autore”.

“La curiosità per uno scrittore mi nasce eventualmente solo dopo aver letto quello che scrive. A 13 anni dopo aver metaforicamente bevuto tutta la Yourcenar mi sono chiesta chi era nella vita”.

Senza motivo intervengo: “cito un’altra tua frase: è l’imperfezione che fa muovere il mondo”.

“Perché non è così?” ribatte Chiara “l’imperfezione è la natura del mondo, me l’ha insegnato la matematica. Una volta a lezione parlavo del mio sforzo per arrivare alla migliore approssimazione. Il mio professore mi chiede quanto tempo ho perso e aggiunge a volte l’approssimazione migliore è la prima che ti viene. Insomma dobbiamo accontentarci di un 80%, nulla è perfetto, e il sapere che a volte bisogna semplicemente accettare che non c’è alcuna soluzione è bellissimo!”

Interrompo: “si può progettare matematicamente un romanzo?”

“La matematica mi serve come metodo per non credere all’autorità di chi si vuole imporre, la matematica ti porta oltre il conformismo e nel farlo diventa motore di innovazione, dopotutto è pura immaginazione: esiste il punto che non ha parti? Esiste il parallelismo? John Le Carrè parla di geometria utile non vera”.

Eppure dovrei fare una intervista così dico: “Ci piace associare l’Italia alla cultura ma forse parliamo al passato, di cultura antica, oggi siamo tra i Paesi europei in cui si legge meno…”

“Al mondo siamo oltre 10 miliardi di persone ma le discussioni intellettuali si svolgono in un piccolo fazzoletto di Paesi dove c’è un livello borghese di vita supportato da un sistema di diritti. In Italia ci sediamo su una idea di cultura perché abbiamo l’80% dei siti Unesco del mondo, siamo un luogo comune culturale, guarda dove siamo seduti…abbiamo intorno Venezia, dico Ve-ne-zia. Tu vuoi dirmi che oggi gli italiani sono come gli egiziani di fianco alle Piramidi? Sì è così. Possiamo però recuperare, anche se sarà un processo lento, dobbiamo accettare d’essere oggi una lingua minoritaria e investire di più nel far tradurre i nostri libri in altre lingue. Il mercato del libro vale 6 miliardi in Germania, 3 in Francia, 1,5 in Italia.”

Butto là: “nel frattempo cresciamo giovani che dialogano con l’Intelligenza Artificiale e sembrano indifferenti alle nostre preoccupazioni esistenziali”.

“Fanno battaglie su istanze ecologiche e con una grammatica che non capisco e non conosco, sembra più distruttiva che conciliativa sincretica, ma non possiamo altro che credere nel futuro, è chiaro che chi ha 20 anni vede più avanti di me che ne ho 46. Non sono paternalista e non voglio dirgli che si fa in un modo piuttosto che in un altro. Semplicemente gli credo. È una collettività diversa da quella in cui siamo cresciuti noi, è una collettività con meno corpo. Prendiamo ad esempio l’AI per me è una faccenda culturale, per loro è naturale, così come per me la macchina da scrivere era naturale e per mio padre era un oggetto culturale. Dobbiamo aspettare di vedere quello che costruiscono con mezzi che sono per loro naturali, se guardo mio nipote che ha 2 anni la sua prossemica è indifferente tra il vedermi dal vivo o in videochiamata, bacia lo schermo per salutarmi, io devo credergli se lui pensa sia corpo. Ci preoccupiamo che macchine scrivano libri o dipingano quadri? Recupereremo il valore della fisicità e dell’oralità. Insomma se deve andare così che vada, sono più curiosa che preoccupata. Giovani impigriti dalle macchine? Più che di pigrizia direi addomesticamento ti impediscono di esercitarti a risolvere certi problemi. Torneremo a dar valore all’ars facere, ovvero a sapere una cosa ma soprattutto a saperla fare, che poi sia col tuo corpo o con i dispositivi che avremmo a disposizione cambia poco. Guardare al futuro con pensiero apocalittico non mi interessa perché è deresponsabilizzante. Se deve finir tutto a breve e allora che te ne frega di come ti comporti oggi?”

Senza motivo dico: “ho studiato greco e latino ma non saprei tradurre nulla”.

“Io ho studiato 13 anni matematica e oggi non distinguo se una equazione di 3° grado sia risolvibile o non risolvibile. Greco-latino l’averli studiati ti è stato fondamentale, ti ha strutturato la mente anche se oggi non sai tradurre, il funzionalismo (ovvero ho studiato una cosa quindi devo saperla per sempre) non ha senso”.

Senza alcuna logica coerente improvvisamente mi trovo ad imprecare contro il tentativo di mettere un biglietto d’entrata a Venezia: “ma se uno ha un’amante di fuori regione che vuol fargli una sorpresa andandolo a trovare a casa a Venezia deve pagare il ticket?”

“Kundera sarebbe impazzito! Io a Venezia ci vengo ogni volta che posso col mio gatto. Ma tu parli polacco?”

“Sì o almeno ci provo”, rispondo.

“Una lingua la impari con l’amore o parlando con i bambini. Ho letto moltissimi scrittori polacchi. Da editore ho pubblicato due libri della Tokarczuk, scrittrice enorme, ovviamente mi accodo perché le hanno già dato il Nobel. Da ragazzina ho letto la raccolta dei premi Nobel e ovviamente Sienkiewicz, “Quo vadis”, ovvero parlare del presente attraverso Roma antica. La Polonia è un Paese di contrasti, dal punto di vista letterario lo amo, Pan Tadeusz, poema nazionale che si apre con “O Lituania mia patria perfetta”!

Aggiungo: “bè il refrain dell’inno nazionale è dalla terra italiana alla Polonia”.

“È un Paese di contraddizioni e questo genera grande letteratura, penso a Ferdydurke, Kosmos, Pornografia di Gombrowicz e poi l’ironia della Szymborska, i reportage di Kapuscinski. A proposito bello il libro sulla mitteleuropa di Francesco Cataluccio “Vado a vedere se di là è meglio”. E vogliamo parlare di Mariusz Szczygiel? Non puoi parlare dei problemi del tuo Paese così li tratti scrivendo della Repubblica Ceca? Il fatto è che quando ridi le cose le capisci meglio, e mentre l’intellettuale polacco è ironico e non tragico quello italiano tende alla noiosa seriosità”.

Chioso: “In Polonia si legge ancora Boccaccio”.

“Di sicuro più che in Italia. Ma poi scusa il cinema dove lo mettiamo? Sono cresciuta ai tempi di Fuoriorario quando trasmettevano senza soluzione di continuità Wajda, Zanussi, Kieslowski”.

Inevitabilmente chiedo: “sei stata spesso in Polonia?”

“Mai stata! Ma ad inizio 2025 pubblicano in polacco il mio romanzo “Chi dice e chi tace” e verrò di sicuro! Invitatemi!”.

Ora mi ricordo… il suo ultimo romanzo! Ecco cosa dovevo chiederle. Che figuraccia, non mi resta che sperare che gli Istituti Italiani di Cultura di Varsavia e Cracovia la invitino presto così rimedio.

Palermo

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Quattro Canti

traduzione it: Agata Pachucy

Non è stato un colpo di fulmine. Mentre guidavo per le strade della città spaventato dal caos che mi circondava, non pensavo all’amore. Pensavo solo al bisogno elementare di sopravvivenza. Non sapevo ancora che presto avrei capito il codice della strada a Palermo.

Mi infastidiva la sua intensità. Tutto moltiplicato come nel quadro di Renato Guttuso La Vucciria. Nel trambusto di un mercato cittadino due uomini che commerciano, un pescatore e un contadino pronti a fare una rissa, solo lei li separa. In un abito bianco, muovendo i fianchi, domina il resto dei personaggi. Forse è Marta, la musa dell’artista siciliano?

La Cala di Palermo

E perché mangia sempre in piatti di plastica se Palermo non riesce a smaltire i rifiuti? Una volta andando verso Borgo Parrini, il GPS mi ha portato per le strade secondarie in cui sembrava di viaggiare in mezzo a discariche. Non riuscivo a sollevare il mio pensiero sopra le montagne di rifiuti. Mi ha aiutato il libro “I ratti di via Veneto”. Piotr Kępiński mi ha fatto capire che il senso di superiorità dei settentrionali nei confronti dei siciliani e del loro “problema rifiuti” non serve a nulla.

Sapevo che era coraggiosa come Rita Atria. Rita aveva testimoniato contro la mafia siciliana. Ha collaborato con l’investigatore Paolo Borsellino che, a quanto si dice, la trattava come una figlia. Quando, nel maggio del 1992, Giovanni Falcone fu ucciso in un attentato in autostrada a Capaci e due mesi dopo, in un altro attentato davanti all’appartamento della madre, morì Borsellino, Rita sapeva che nessun altro era in grado di difenderla. Si tolse la vita.

Mercato Ballarò

Sapevo che era intransigente come Letizia Battaglia. In una società conservatrice, Letizia si è battuta a lungo per il diritto di esercitare la sua professione. Era la fotografa dell’ormai scomparso giornale L’Ora negli anni in cui le morti per le strade di Palermo erano un fatto quotidiano. Una foto trovata nel suo archivio ha dimostrato i legami diretti dell’allora presidente del Consiglio Giulio Andreotti con Cosa Nostra.

Sapevo che era orgogliosa come Malena Scordia, il cui ruolo è stato ruolo interpretato da Monica Bellucci nel film “Malena”. Maltrattata e umiliata da suo padre e dalla gente del posto, una donna a testa alta passeggia per le strade di una città siciliana.

Basta questo per innamorarsene?

W drodze do Erice / Sulla strada per Erice

6-8/11/24 Fiera HoReCa: La Sicilia a Cracovia

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“Regione Gastronomica Europea 2025”, questa è la Sicilia che, prima in Italia ha ricevuto questo prestigioso premio dall’IGCAT (Istituto Internazionale Gastronomia, Cultura, Arte e Turismo). I rappresentanti polacchi del settore alimentare potranno ora conoscere, durante la fiera HoReCa in programma dal 6 all’8 novembre a Cracovia, i vini e gli oli d’oliva siciliani. Camera d’Affari Polacca in Italia (CAPI) insieme a Smart Iting, hanno invitato a partecipare alla fiera l’Istituto Regionale dell’Olio e del Vino della Sicilia IRVO. I rappresentanti dei produttori di vino siciliani: Regalpetra srl Società Agricola, Cantina CVA Canicatti, Candido Vini Camporeale, Azienda Agricola Foraci SS, Marchesi di Rampingallo, invitano allo stand E39, Sala DUNAJ, dove hanno preparato un’offerta interessante per ristoratori, distributori e importatori.

La Sicilia con i suoi 99.000 ettari di vigne e le 26.520 aziende agricole dedite al vino è la seconda regione italiana per superficie coltivate, ma anche il numero delle aziende agricole. Aggiungiamo a questo circa mille aziende vitivinicole, di cui circa 40 sono enti affiliati, che portano ad una produzione media di uva negli anni 2020-2023 pari ad un valore di circa 6,9 milioni di quintali, e vini e mosti a livello di 3,6 milioni di ettolitri (i vini bianchi costituiscono il 63-65%, i vini rossi il restante 35-37%).

La Sicilia può vantare 24 vini a denominazione di origine protetta (DOP), di cui 1 DOCG e 23 DOC (secondo la nomenclatura italiana) e 7 a indicazioni geografiche protette (IGP/IGT). Tra questi il famoso vino Marsala DOC nella Sicilia occidentale, il Pantelleria DOC prodotto sull’isola di Pantelleria, l’Etna DOC nella Sicilia orientale e la Malvasia delle Lipari DOC prodotta nell’arcipelago delle Eolie, e il Cerasuolo di Vittoria DOCG e Noto DOC nella Sicilia sud-orientale.

Tra gli IGT, l’IGT Terre Siciliane è in assoluto il più importante, rappresentando quasi il 52% del totale dei vini siciliani confezionati.

La produzione totale di vino DOC, certificato nel 2023, è stata di 972.394 ettolitri, pari a circa il 35% della produzione regionale totale di vino e mosto.

La DOC più prodotta è la DOC Sicilia con 818.359 ettolitri certificati nel 2023, che rappresentano l’84% della produzione totale certificata DOP della regione siciliana.

Alcuni di questi vini li potrete assaggiare a Cracovia in occasione della Masterclass dal titolo “Sicilia enologica – vini e territori”, che si svolgerà il 7 novembre dalle 11 alle 12:30. La masterclass sarà condotta da Gianni Giardina, enologo italiano dell’Istituto IRVO, ambasciatore di Viticultura Eroica, e avrà l’obiettivo di presentare vini siciliani selezionati, mostrando la loro specificità e unicità. Durante l’evento sarà effettuata una degustazione di 10 vini e gli ospiti potranno porre domande e parlare direttamente con i partner italiani.

Potrete degustare l’olio d’oliva in numerose varietà (es. al pomodoro verde o alla mandorla amara) nell’ambito dell’OPEN DEGUSTAZIONE dal 6 all’8 novembre presso lo stand B21. Quattro le aziende presenti, in rappresentanza di produttori di olio d’oliva di altissima qualità: Società Agricola Radici, Rosario Tramontana, Lo Grasso Francesco, Azienda Agricola Fisicaro Sebastiana vi inviteranno a degustare oli unici direttamente sul vostro palato o… sul pane polacco!

La Sicilia ha prodotto in media dalle 30.000 alle 40.000 tonnellate di olive all’anno fino al 2023, quando, a causa delle alte temperature e della grave siccità, la produzione di olio d’oliva è scesa a 28.200 tonnellate. La minore disponibilità dei prodotti combinata con una maggiore qualità ha portato ad un aumento del prezzo medio e ad un cambiamento nella strategia del settore produttivo. La regione, infatti, è uno dei principali produttori di olio d’oliva certificato in Italia con 6 DOP (Val di Mazara, Valli Trapanesi, Monti Iblei, Valdemone, Valle del Belice, Colline Ennesi) e 1 IGP Sicilia. Un prodotto certificato DOP o IGP è garanzia per il consumatore del rispetto degli standard più elevati. È l’IRVO (Istituto Regionale del Vino e dell’Olio) della Sicilia che da oltre 10 anni si occupa del rilascio di certificazioni, promozione e formazione.

Le esportazioni di olio extra vergine di oliva siciliano DOP e IGP hanno superato un totale di 3.000 tonnellate nel 2023, di cui l’IGP rappresenta la quota maggiore. Stati Uniti, Giappone ed Europa – con la Germania capofila – ne apprezzano le caratteristiche organolettiche.

Da Altamura arriva anche un altro espositore, in visita per la prima volta alla fiera di Cracovia: Molini Loizzo (stand B22) è un’azienda produttrice di deliziose e varie tipologie di farine, perfette per pizza e altri prodotti salati e dolci da forno. Come ci ha raccontato Alessia Lombardi, in rappresentanza dell’azienda, attende con grande curiosità gli incontri con le aziende polacche.

Vino e olio d’oliva sono due pilastri della dieta mediterranea, conosciuti in tutto il mondo per le loro proprietà salutari. Nel 2010 l’UNESCO ha elevato la dieta di questa zona al rango di Patrimonio dell’Umanità. L’uomo esce dalla barbarie ed entra nella civiltà del Mediterraneo quando comincia a coltivare la vite e l’ulivo (Tucidide). Oggi sappiamo e apprezziamo che la vite e l’ulivo legano la CO2 molto meglio delle piante forestali e contribuiscono alla tutela dell’ambiente del nostro pianeta e, con i loro sapori, odori e colori, sono componenti della qualità della vita.

Non resta che provare!

 

Foto: aziende siciliane, espositori alla fiera di Cracovia

La Biennale di Venezia: dopo 53 anni torna la storica rivista

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foto: Zofia Wadowska

Giovedì 24 ottobre la Biblioteca dei Giardini della Biennale di Venezia ha ospitato la presentazione de “La Biennale di Venezia”, la prima rivista dal 1971, il trimestrale che accompagna una delle mostre più famose al mondo di arte, architettura, cinema, danza, musica, teatro e moda. In passato la rivista ha visto 68 edizioni, evolvendosi da una funzione di archivio a una funzione di formazione di opinioni, diventando un campo di discussione per i temi più contemporanei. In questo modo, le opere dei creatori della Biennale sono state archiviate, ma hanno anche avuto una seconda vita. Artisti e curatori hanno potuto osservare le mostre da una prospettiva nuova e più ampia, e i temi sono diventati più accessibili a un pubblico più vasto.

A inaugurare la presentazione è stata Deborah Rossi, la direttrice del servizio Archivi della Biennale, che ha raccontato la storia della rivista e ha presentato al pubblico il tema dell’ultimo numero, intitolato “Diluvi prossimi venturi”. L’edizione si concentra sul rapporto dell’uomo e della società con l’acqua, secondo un approccio interdisciplinare tipico per La Biennale. I testi sono scritti da scienziati, sociologi, artisti, architetti, e sono illustrati da fotografie d’archivio e contemporanee, immagini e diagrammi.

La conferenza è stata tenuta da un architetto marocchino il cui lavoro si basa in gran parte sul concetto di „designing for an arid future”, progettare per un futuro arido. Il suo approccio si è sviluppato attraverso le esperienze dell’infanzia trascorsa nella città marocchina di Fez, osservando le abitudini della sua famiglia e della società, il punto di svolta è stata invece l’esperienza di partecipare a un eco-safari. Uno dei suoi progetti più importanti è il masterplan per la rivitalizzazione del brutalista complesso termale di Siza Harazem, un progetto governativo degli anni Sessanta che, a causa di una notevole incuria e della mancanza di fondi, è caduto in rovina e i sistemi di circolazione dell’acqua, molto ben progettati, non funzionano più come un tempo. Il numero attuale della rivista include gli articoli su progetti di Aziza, insieme ad altri su scala minore e urbana, reportage e interviste con persone di diversi settori.

Il rilancio di questa rivista dimostra che la Biennale di Venezia svolge funzione importante nel campo della ricerca interdisciplinare, è un’istituzione pubblica interessata a temi sia locali che globali. La lettura dell’ultimo numero ci spinge a riflettere sullo stato del mondo, soprattutto sul rapporto con l’acqua, e su come le città polacche si trovino in questa situazione.

Design Out of Context: Innovazione polacca alla Venice Design Week 2024

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I designer polacchi Michał Korchowiec, Aleksandra Kujawska e Marek Błażucki portano il loro contributo alla Venice Design Week 2024, partecipando a tre esposizioni tematiche di rilievo: Interior Design, Light Selection e Orizzonti dall’isola – Un altro sguardo sul design, tutte ispirate al tema di quest’anno, “Out of Context.”

Nella sezione Interior Design, viene presentata una collezione creativa di mobili e articoli per la tavola che offrono una nuova prospettiva sugli spazi abitativi. I designer esplorano come oggetti quotidiani, estratti dal loro contesto abituale, possano trasformare l’estetica e la funzionalità delle nostre case. Tra questi, spicca la sedia Onda di Marek Błażucki, esposta a San Leonardo. Con il suo design fluido e organico, Onda si ispira alle forme naturali delle onde, offrendo un perfetto equilibrio tra comfort e stile contemporaneo, reinterpretando così il concetto di arredo domestico.

Nella sezione Light Selection, la Venice Design Week reinterpreta l’illuminazione come una forza narrativa in grado di influenzare la percezione degli spazi. Questa mostra, distribuita in diverse location iconiche di Venezia, enfatizza la luce come elemento funzionale e nel contempo come componente emozionale. In questo contesto, Marek Błażucki è presente anche con la lampada Kalky Ragged Terra, esposta sia a San Leonardo che all’Hotel Luna Baglioni. Kalky Ragged Terra, con il suo paralume in carta da lucido tinta a mano e i bordi strappati, introduce una texture grezza che contrasta con un design minimalista.

Marek Błażucki

Parallelamente, la serie di illuminazione SE.1 e SE.2 di Michał Korchowiec, presentata anch’essa a San Leonardo e all’Hotel Luna Baglioni, dimostra come la luce possa trasformarsi in una guida emotiva. Le sue installazioni interagiscono con l’ambiente circostante, cambiando colore durante la giornata per creare atmosfere suggestive e immersive. Le lampade di Korchowiec non sono solo fonti di luce, ma “compagni” dinamici che plasmano gli spazi in cui si trovano.

Un altro appuntamento imperdibile della Venice Design Week, aperta fino al 27 ottobre, è l’esposizione Orizzonti dall’Isola presso la Palazzina Grecale di San Servolo. La mostra si focalizza sull’innovazione e sul design sostenibile, con un forte accento sull’artigianato e la sperimentazione contemporanea. In questo contesto, la collezione Comets di Aleksandra Kujawska attira l’attenzione per la sua unicità. Le sue caraffe e bicchieri soffiati a mano, realizzati con tecniche metallurgiche tradizionali, evocano la bellezza delle comete, ciascuno decorato con motivi unici creati dalla combustione naturale degli stampi in legno di faggio. La collezione, ispirata alle opere di Stanisław Lem, mira a suscitare emozioni positive e a portare un tocco di meraviglia nella vita quotidiana.

Comets

Orizzonti dall’Isola invita i visitatori a interagire con il design in modo nuovo, mettendo in mostra oggetti decorativi che fondono tradizione e modernità, con una visione di sostenibilità che dà nuova vita al design contemporaneo. La cornice serena di San Servolo, unita all’innovazione delle opere esposte, offre un’opportunità unica per esplorare un dialogo creativo tra passato e presente. Con pochi giorni rimasti per visitare l’esposizione, non perdete l’occasione di scoprire questa mostra affascinante prima della chiusura, il 27 ottobre.

Aleksandra Kujawska

Come il caffè è diventato espresso

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fot. Katya Czarnecka

Fra i prodotti sinonimo di italianità vi è sicuramente il caffè, o per meglio dire il suo metodo di preparazione, universalmente noto come “espresso”, diffuso a livello mondiale a partire dagli anni ’60. Perché all’Italia si associa una bevanda, prodotta dalla lavorazione dei semi di una pianta originaria degli altopiani etiopici? Quanto è stato lungo il cammino per arrivare a quello che definiamo “espresso”? È quello che proviamo a descrivere in questo articolo ripercorrendo le principali tappe della diffusione di questa che è fra le bevande più consumate al mondo e la cui coltivazione è diffusa in molti paesi tropicali. Le prime notizie relative alla scoperta della pianta del caffè e soprattutto alle caratteristiche per la quale oggi è nota, sono tramandate da alcune leggende. La più accreditata, è quella, diffusa da un frate cristiano maronita, insegnante di lingue orientali a Roma e poi a Parigi, Antonio Fusto Naironi, secondo la quale un pastore di nome Kaldi pascolando il suo gregge sugli altopiani del sud dell’Etiopia, nella regione di Kaffa, notò l’irrequietezza delle sue capre ogni volta che si nutrivano dei semi di una  pianta dalla forma rotonda e dal colore brillante.

Kawa po turecku/Caffè alla turca
fot. Katya Czarnecka

Incuriosito, anche lui volle provarne e sentendosi rinvigorito da questo cibo, e ne volle portare ai sacerdoti di un vicino tempio che, diffidando del suo racconto, gettarono i semi nel fuoco per bruciarli, ma questi emanarono un aroma piacevolissimo che li convinse a raccoglierli sperimentando la loro infusione in acqua bollente.

La bevanda così prodotta era piacevole e, come detto loro detto dal pastore, aveva un effetto energizzante al punto che presero l’abitudine di usarla durante le liturgie notturne di preghiera, per tenersi svegli.

La leggenda concorda, peraltro, con le teorie di alcuni studiosi che ritengono come i semi della pianta di cui si cibava il gregge di Kaldi fossero consumati dalle popolazioni degli altopiani etiopici, mescolati a grassi animali, come cibo, soprattutto in occasione di viaggi e spostamenti

La coltivazione della Kaffa, cui fu successivamente attribuito il nome scientifico di Coffea, rimane circoscritta, per molti secoli, negli altopiani dell’Africa Orientale, dove cresceva anche spontaneamente, per poi diffondersi nello Yemen, separato solo da un braccio di mare dalle coste Etiopi (odierna Eritrea), che aveva frequenti contatti con queste popolazioni e ne dovette, probabilmente, subire anche alcune invasione prima dell’anno 1000.

Anche in questa regione la diffusione della Kaffa, il cui nome poi si evolve in lingua araba in “qahva”, e della bevanda prodotta dai suoi semi, pare sia dovuta ad alcuni monaci “sufi”, che praticavano un islamismo ascetico e traevano beneficio, come i loro colleghi etiopi, dalla bevanda, nel corso delle estenuanti veglie di preghiera e nella celebrazione di liturgie che si celebravano anche attraverso la danza.

Certamente il consumo di caffè si propagò dallo Yemen e dal suo porto principale, Moka, all’Arabia e successivamente a tutte le popolazioni di religione islamica, come testimonia una delle tante leggende sulla sua origine, nella quale si narra che una bevanda scura e fumante fosse portata dall’arcangelo Gabriele al profeta Maometto per aiutarlo a superare un momento di malessere e di profonda stanchezza.

I contatti fra le comunità religiose islamiche ed i pellegrinaggi a La Mecca, ai quali allora come oggi partecipano un gran numero fedeli, ebbero, un ruolo fondamentale nella diffusione dei semi di “qahva” che in arabo significa “bevanda energizzante o eccitante”.

Nell’arco di tre secoli, dallo Yemen il consumo di caffè si propaga all’Arabia e raggiunge i paesi del Nord Africa, del vicino Oriente e la Turchia , e fu grazie agli scambi commerciali con alcuni paesi europei, ma soprattutto con Venezia, che si cominciò a diffondere notizia di questa “usanza dei turchi”. Il veneto Prospero Alpini, illustre botanico di Padova e medico personale dell’allora console della Serenissima in Egitto, Giorgio Emo, fu il primo a descrivere le caratteristiche della pianta del caffè e a tramandarcene il primo disegno, nel suo trattato di botanica del 1592, “De plantis Aegypti”, vantando gli usi terapeutici della bevanda ricavata dall’infusione dei suoi semi, dal gusto “amaro come bere cicoria”.

Infatti l’utilizzo iniziale fu quello medicale ed i semi erano difficilmente reperibili, peraltro a costi altissimi, presso gli speziali (gli odierni farmacisti) indicati soprattutto quale antidoto contro i disturbi intestinali.

Pare che siano stati gli studenti dell’Università di Padova, dove l’Alpini insegnò dopo la sua esperienza in Egitto, ad acquistarne i primi quantitativi arrivati a Venezia. Il trattato di Prospero Alpini è di qualche anno successivo alla testimonianza del “balio” Gianfranco Morosini, ambasciatore, della Repubblica di Venezia a Istanbul, che nel 1585 , in una relazione al Senato, descrive la bevanda come “acqua nera bollente che si ricava da un seme, “qahva”, che fa stare l’uomo sveglio” e dava notizia del suo consumo in appositi locali “Qahveh Haneh”, già diffusi in quel periodo ad Istanbul, a modello di quelli già presenti al Cairo, Damasco ed Aleppo, nei quali sostavano cantastorie, ed avventori impegnati in partite di “mangala” (gioco simile agli scacchi ancora oggi molto diffuso in Turchia), il tutto accompagnato da chiacchiere, pettegolezzi e commenti, a volte anche critici nei confronti delle autorità, che periodicamente decretarono la chiusura delle “Qhaveh Haneh”, provvedimenti peraltro di breve durata o, di fatto, ignorati dalla popolazione, per la quale il consumo di caffè e la frequentazione delle “Haneh” era ormai diventata un’abitudine.

Da inizio ‘600 Venezia, grazie agli scambi con l’impero ottomano, diviene il primo porto europeo di arrivo e smistamento dei semi di caffè, che poi proseguivano il viaggio fino ai paesi del Nord Europa, in particolare verso la Germania. Comincia così a diffondersene il consumo grazie anche all’apprendimento delle tecniche per la sua preparazione, abbrustolendo, e mettendo a macerare i semi, a lungo, in acqua bollente “come facevano i turchi”. L’aggiunta di zucchero e spezie per renderne l’aroma ed il sapore più piacevole, pare sia successiva, quando il caffè cominciò ad essere una bevanda “alla moda”, gradualmente soppiantando l’utilizzo medicale indicato dall’Alpini nel suo trattato e, intorno al 1640, comincia a consumarsi, insieme ad altre bevande, nelle “Botteghe delle Acque e dei Ghiacci”.

Nel corso degli anni la conoscenza dell’utilizzo del caffè si diffonde presso le famiglie aristocratiche e benestanti ed anche i luoghi deputati alla mescita della bevanda diventano sempre più raffinati collocandosi nelle zone “bene”, diremmo oggi, della città e, anche se servivano altri tipi di infusi, vengono identificati con la mescita della bevanda che arriva dall’oriente, nascono così i locali chiamati “Caffè”.

L’inizio della diffusione del caffè nei paesi cristiani come avvenuto un paio di secoli prima nei paesi dell’Islam, attira l’attenzione delle gerarchie religiose, a tal punto che a Papa Clemente VII (1595-1605) viene chiesto di proibirne l’uso in quanto bevanda “del diavolo”, ma il Pontefice l’assaggia e ne rimane entusiasta, dicendo che una simile prelibatezza non può essere di esclusivo uso degli “infedeli” e quindi la “battezza”, togliendone il, presunto, imprimatur di Satana.

Come abbiamo visto i locali dove veniva bevuto il caffè sono già presenti a Venezia fin dalla metà del ‘60 , la cui frequentazione è suggerita ai visitatori nelle “guide turistiche” dell’epoca, ma il primo di cui si tramanda il nome è il “Caffè Florian” (il nome originale era “Caffè della Venezia Trionfante”) dal nome del proprietario Floriano Francesconi, aperto nel 1720 che diventò ritrovo alla moda per la borghesia ed i letterati del tempo, ben presto imitato da altri locali simili, in particolare dal “Caffè Quadri”, che da allora ne è il principale concorrente, dal momento che i due locali, meravigliosamente conservati, continuano a tutt’oggi la loro attività , uno di fronte all’altro, sotto i porticati di Piazza San Marco.

I maggiori artisti, letterati e filosofi dell’epoca frequentavano questi ritrovi: Vivaldi, Goethe, Mozart, Rousseau e Carlo Goldoni che appunto titolò una delle sue commedie di maggior successo “La bottega del Caffè”, scritta nel 1750 e ambientata in un Campiello dove la bottega del Caffè diventa osservatorio privilegiato delle vicissitudini dei protagonisti su cui vigila il “caffettiere” Ridolfo, che ha un ruolo decisivo nel ricomporre dissidi coniugali e ricondurre i viziosi sulla retta via.

Caffettiera napoletana, fot. Evelina Ussardi

A partire da Venezia i “caffè” cominciarono a diffondersi anche nelle altre capitali europee, a Parigi il primo fu il “Procope” fondato dal siciliano Francesco Procopio. La nascita del primo “caffè” a Vienna vede protagonista un commerciante o, secondo altri, un ufficiale polacco, Jerzy Franciszek Kolschitzky che, nell’agosto 1683, con la capitale austriaca assediata dall’esercito turco guidato da Kara Mustafa Pasha, fu inviato dal conte von Starhemberg a cercare rinforzi. Kolschitzki, sfruttando la conoscenza di lingua e usi dei turchi riuscì a superare l’assedio. Fu anche grazie al successo della sua sortita che francesi e polacchi, guidati da Giovanni III Sobiesky, misero in fuga gli assedianti. Kolschitzki venne ricompensato con terreni, danari e 500 sacchi lasciati dai turchi che tutti pensavano contenessero mangime per animali. Erano invece bacche di caffè, dei quali Kolschitzky conosceva bene il valore. Aprì quindi un locale ed iniziò a servire la bevanda amara e non filtrata secondo il metodo di preparazione alla turca. Il successo arrivò solo quando iniziò a servire il caffè con l’aggiunta di miele, latte o crema; così i viennesi cominciarono ad amare questa bevanda, decretando il successo del “Den Blauen Flaschen”, la “Fiasca Blu”, il primo caffè di Vienna. Una statua di Kolschitzky ritratto vestito “alla turca” nell’atto di servire un caffè si può ammirare ancor oggi a Vienna, in un palazzo storico, al numero 4 della Kolschitzky Gasse. A lui, nel 2009, fu dedicato anche un francobollo delle Poste Polacche nell’ambito della serie filatelica “Tracce polacche in Europa”. Il crescente consumo del caffè aumentò l’interesse a coltivarlo in altri territori oltre a quelli di origine che vietavano l’esportazione della pianta. Il primo a riuscire nell’impresa, alla fine del ‘600, fu l’olandese Peter Van Der Broke che fece crescere la pianta del caffè nell’Orto Botanico di Amsterdam da dove poi ne iniziò la diffusione nelle colonie olandesi di Giava e Sumatra e quindi nella Guayana olandese, in Centro America. I Francesi ne iniziarono la coltivazione in Martinica a metà ‘700, e così fecero anche Inglesi e Portoghesi nelle rispettive colonie fra il Tropico del Cancro e del Capricorno. L’enorme espansione della coltivazione del caffè provocò una maggiore reperibilità e un minor costo del caffè ampliandone il consumo.

Recarsi al caffè diventa nel frattempo un rito soprattutto per intellettuali e letterati ed è da qui che si diffondono idee di emancipazione e progresso nel secolo dei “lumi”. Ne è testimonianza il nome, “Il Caffè’’, dato da Pietro Verri alla rivista che ideò nel 1764, volendo sottolinearne la varietà degli argomenti trattati: dalle lettere, alle scienze, alla filosofia, ed alla quale collaborò, fra gli altri, anche Cesare Beccaria, autore “Dei Delitti e delle Pene”, trattato nel quale si contestava, per la prima volta, l’utilizzo delle pene di morte. Siamo ormai nella seconda metà del ‘700 e nella nostra, necessariamente sommaria, panoramica sulla diffusione del caffè non abbiamo ancora menzionato Napoli, all’epoca una delle città più popolose d‘Europa, dove il consumo del caffè si diffuse più tardi rispetto alle altre capitali, grazie a Maria Carolina d’Asburgo, sposa di Ferdinando IV che lo fece servire, nel 1771, nel corso di un ballo alla reggia di Caserta.

Moka, fot. Magda Zbrzeska

Dall’utilizzo a corte a quello popolare il passo fu breve, grazie anche alla circolazione di alcuni “pamphlet” sull’utilizzo del caffè e del cacao, nei quali si smentiva la teoria che il consumo di caffè portasse sfortuna e fosse una “diavoleria”.

Quando il caffè cominciò a diffondersi nei paesi cristiani attirò l’attenzione delle gerarchie religiose, a tal punto che a Papa Clemente VII (1595-1605) venne chiesto di proibirne l’uso in quanto bevanda “del diavolo”, ma il Pontefice l’assaggiò, ne rimane entusiasta e disse che una simile prelibatezza non poteva essere di esclusivo uso degli “infedeli” e quindi la “battezzò”, togliendone il, presunto, imprimatur di Satana.

È ad inizio ‘800 che Napoli adotta il caffè, la cui moda si deve anche all’invenzione di uno stagnino parigino, Jean Louis Morize, che nel 1819 fabbrica una caffettiera di latta in cima alla quale incastona un filtro colmo di caffè macinato sul quale versare l’acqua bollente in modo da assorbirne le sostanze aromatiche evitando il permanere dei residui, cosa che accadeva nel normale processo di infusione dei semi in acqua bollente. All’epoca gli scambi con la Francia erano intensi, grazie anche alla dinastia dei Borboni, e l’invenzione di Morize trova a Napoli il successo che non ebbe in patria, perché gli artigiani la perfezionano incastonando il filtro, forato, contenente la polvere di caffè all’interno del serbatoio dell’acqua sul quale si avvita il contenitore della bevanda. Quando l’acqua va in ebollizione la caffettiera viene capovolta in modo da consentire, per gravità, il passaggio dell’acqua attraverso il filtro contenente il caffè. Nasce così la caffettiera “napoletana” o, dialettale, “cuccumella” che consente la preparazione del caffè in tutte le case trasformandolo in un momento della vita familiare ed in un’occasione di socialità.

È indimenticabile il monologo nel quale Edoardo De Filippo nella sua commedia “Questi Fantasmi” si rivolge al dirimpettaio, il Professor Santanna, descrivendo, in modo dettagliato, le fasi di preparazione del caffè con la “cuccumella”, in particolare suggerendogli l’utilizzo del “cuppitiello”, piccolo coperchio di carta da sistemare sul becco della caffettiera, una volta terminata la preparazione, per preservarne l’aroma.

La Cimbali Pitagora 1962; fot. Irene Fanizza

La coltivazione del caffè nella seconda metà dell’800 si diffonde ulteriormente, soprattutto in Sud America (Brasile, Guatemala, Colombia) e nelle colonie africane dei paesi europei dalle quali viene esportato verso il Vecchio Continente ed in Nord America.

All’Expo Universale di Parigi nel 1855 viene presentata dal francese Louis Bernard Babaut, la prima macchina a vapore per la preparazione di più caffè contemporaneamente ma ha scarso successo perché la temperatura del vapore, non controllata, rischia di far esplodere il macchinario.

Il salto di qualità avviene in Italia nel 1901 quando Luigi Bezzera, sulla scia di un altro inventore, Angelo Moriondo, mette a punto la prima macchina da caffè in grado di riempire tazze in serie, cedendone poi i brevetti a Desiderio Pavoni che inizia a produrla nel 1908.

Sono macchine dotate di una caldaia scaldata da un fornello a gas, in grado di riscaldare grandi quantità d’acqua e “percolare” la polvere di caffè (stesso principio della caffettiera napoletana) potendo servire in tempi rapidi un numero maggiore di clienti, ma sono macchine ingombranti, a sviluppo verticale e di non facile manutenzione che forniscono una bevanda dal sapore a volte “bruciato”, come nota un milanese che lavora nel caffè di famiglia, Achille Gaggia, che insieme ad Antonio Cremonese, inizia a produrre una caldaia che manda in ebollizione l’acqua utilizzando la pressione a temperatura costante e non il vapore per dare al caffè un sapore migliore, ma siamo nel 1938, alla vigilia della seconda guerra mondiale e la novità, ha scarsa eco.

Peraltro qualche anno prima (1935) era stato costruito un primo prototipo di macchina in grado di regolare automaticamente la temperatura dell’acqua, la “Illetta”, così denominata dal nome del suo inventore, Francesco Illy, fondatore del celeberrimo marchio “Illy caffè” di Trieste, divenuta importante città di torrefazione del caffè.

Bisogna attendere la messa in produzione di “Classica”, nel 1948, sempre su intuizione di Achille Gaggia per avere una macchina da caffè con la pressione e la temperatura dell’acqua regolate da una leva idraulica e la fuoriuscita del caffè contemporaneamente da più erogatori posizionati in orizzontale.

È la prima macchina industriale per la preparazione del caffè “espresso” che può essere pronto in circa 30 secondi grazie all’utilizzo di una leva idraulica che regola la temperatura dell’acqua che passa attraverso la polvere del caffè ad una temperatura ottimale, circa 90 gradi, dandogli un aspetto cremoso ed un aroma inconfondibile. Tanto che l’inventore la pubblicizzò come “macchina per Crema caffè naturale-funziona senza vapore”.

MUMAC, fot. Emanuel Galimberti

Dagli anni ’50 le macchine Gaggia, grazie alla meccanica innovativa ed al design accattivante, cominciano ad essere esportate in tutto il mondo a partire da quei paesi in cui le comunità italiane erano forti. Il marchio Gaggia, nel 1977, ha anche il merito di aver consentito a milioni di consumatori di preparare a casa un “espresso” come al bar, grazie alla “Baby Gaggia”, dal design compatto e dal classico colore arancione.

Ma un ruolo fondamentale nel consumo domestico del caffè lo si deve ad Alfonso Bialetti che, nel 1933, immette sul mercato una caffettiera a pressione, della quale se ne sono venduti ad oggi oltre 120 milioni di esemplari, alla quale dà il nome di Moka, dal porto dello Yemen dal quale partirono i primi carichi di caffè.

La diffusione capillare in Italia e poi nel mondo dell’espresso e delle macchine per la sua preparazione è dovuta anche a campagne di marketing molto accattivanti ideate -a partire dagli anni ’60, in televisione – dai più importanti produttori di caffè italiani.

È ancora oggi molto vivo in Italia il ricordo dello spot TV della Lavazza che, nel 1965 pubblicizzava il suo marchio “Paulista” attraverso le gesta di Caballero e Carmencita, due personaggi stilizzati creati da Armando Testa, mitico pubblicitario italiano.

Importanti designer come Giò Ponti, Bruno Munari, Achille Castiglioni, vengono ingaggiati per rendere accattivanti le forme delle macchine professionali da caffè e nel 1962, il “Compasso d’Oro”, il più prestigioso premio conferito dall’Associazione dei Designer Italiani, viene assegnato a “Pitagora”, macchina da caffè disegnata da Achille e Pier Giacomo Castiglioni, per conto de “La Cimbali Spa”, altro mitico marchio italiano delle macchine da caffè che, per celebrare i 100 anni di attività inaugura il MUMAC, “Museo delle Macchine da Caffè” professionali aperto a Binasco, a pochi chilometri da Milano, accanto alla sede del gruppo Cimbali, nel quale sono esposte le 200 macchine da caffè grazie anche alle quali si è diffuso nel mondo il mito dell’espresso che, come si è descritto, non è soltanto l’aggettivo della lingua italiana oggi comunemente usato nel mondo per ordinare un caffè, ma il frutto di un lungo viaggio che, nei secoli, ha coinvolto molti popoli e introdotto usanze ed abitudini ma che in Italia è diventato, secondo la definizione che Ernesto Illy ha dato dell’espresso, un miracolo di chimica e fisica, fatto di arte e scienza insieme.

 

Il caffè, dopo l’acqua ed insieme al tè è la bevanda più diffusa al mondo. Se ne producono 11 miliardi di chili in 70 paesi e nella sua produzione sono coinvolti oltre 25 milioni di coltivatori (dati International Coffee Organization). I principali 10 produttori: Brasile, Vietnam, Colombia, Indonesia, Etiopia, India, Honduras, Perù, Guatemala, Uganda. I principali 10 importatori: Francia, Stati Uniti, Germania, Italia, Belgio, Francia, Spagna, Regno Unito. L’Italia esporta 1,5 miliardi di caffè torrefatto (Istat, 2021), in 90 paesi del mondo, principalmente destinati a: Germania, Francia, USA, Polonia, Grecia, Regno Unito, Russia. In Italia sono attive oltre mille torrefazioni.