Slide
Slide
Slide
banner Gazzetta Italia_1068x155
D65D23F0-5118-40F3-8E6E-B245329083A1
OILO_baner_media_KW 23'_no.2-06 (1)
Bottegas_baner
Banner_1068x155
LODY_GAZETTA_ITALIA_BANER_1068x155_v1

Home Blog

Marcin Patrzałek, il giovane musicista che ha conquistato il pubblico italiano

0

foto: Klaudia Kurek

Marcin Patrzałek è un chitarrista, musicista e compositore di Kielce, noto soprattutto per gli arrangiamenti di chitarra, che alla fine del 2018 hanno registrato oltre 70 milioni visualizzazioni online. Marcin, nonostante la giovane età, può vantarsi di aver vinto già due famosi programmi televisivi: uno in Polonia, ”Must Be The Music” nel 2015, e di recente, alla fine dello scorso anno, uno show italiano ”Tu Si Que Vales”. Ho parlato con Marcin del suo lavoro, dell’amore per la musica e dei suoi legami con l’Italia.

K.R.: Com’è nato il tuo amore per la musica?

M.P.: Possiamo dire che ho cominciato a suonare per puro caso. Nell’estate del 2010, quando avevo 10 anni, i miei genitori volevano trovarmi un’attività, un hobby. A mio padre è venuta l’idea di farmi iscrivere ad un corso di dieci giorni di chitarra classica nella mia città natale, Kielce. All’inizio non ne ero molto convinto visto che prima di allora non avevo fatto niente di simile. Tuttavia, dopo la prima lezione, è emerso che c’era un grande potenziale per continuare a studiare: la chitarra è diventata rapidamente qualcosa di naturale per me e ho iniziato subito a dedicarci molto tempo, esercitandomi. Dopo i primi 3 mesi di studio ho vinto il mio primo concorso, il Concorso Provinciale di chitarra classica. È stata una grande sorpresa per me e per la mia famiglia, perché il tempo di apprendimento è stato veramente breve. Poi ho cominciato a dedicare sempre più ore allo studio e ho iniziato a interessarmi ad altri stili e alla musica in generale. Attualmente suono lo stile classico, il flamenco, il fingerstyle, il jazz e cerco di combinare tutti questi stili con una sola chitarra e di creare soluzioni musicalmente davvero uniche. Compongo anche musica da film e musica elettronica e ho intenzione di introdurre questi tipi di musica nelle mie performance e nei miei concerti. Nessuno nella mia famiglia è mai stato un musicista professionista, tuttavia, mio nonno e mio padre sono molto interessati alla musica. Mio nonno da giovane ha suonato in una jazz band, invece mio padre per hobby (anche se di altissimo livello) si occupa della lavorazione del suono. Entrambi sono per me fonte di ispirazione e anche i più importanti critici delle mie composizioni.

Come descriveresti il tuo stile?

Lo stile che presento è davvero rarissimo. Uso la cassa della chitarra come un batterista usa la batteria, e con le unghie e i polsi faccio uscire dei suoni completamente non associati a questo strumento. Voglio usare la chitarra per suonare come un’intera band o un’intera orchestra sinfonica, il che non è facile, visto che richiede l’uso di molte complicate tecniche. Cerco di presentare un approccio molto individuale. Come ho già detto ho imparato chitarra classica, chitarra flamenca spagnola, jazz e chitarra acustica e cerco di combinare tutti questi stili in uno solo per creare uno spettacolo speciale, almeno lo spero. Lo stile è così nuovo e individuale che non esiste un percorso „corretto” di apprendimento. Ed è quello che mi piace. Si potrebbe specificare questo stile come un „fingerstyle” ma ho un approccio alla chitarra molto individuale e tale specificazione non è affatto importante.

Dove trovi l’ispirazione per creare le tue composizioni?

È molto difficile per me dire dove trovo l’ispirazione. Prima di tutto ascolto costantemente musica e penso che questa abitudine sia cruciale. Ammetto che ascolto raramente la musica di chitarra, preferisco concentrarmi su altri generi, partendo dal metal, passando per la musica sperimentale, il pop, il rap, il jazz, ecc. Il fatto che così tante diverse sonorità mi circondino costantemente mi spinge ad esprimermi con la chitarra in modi decisamente diversi dall’approccio tradizionale alla chitarra acustica. Quando compongo o arrangio spesso sono guidato da una sorta di impulso spontaneo che mi fa creare uno schema di un’intera canzone in un tempo molto breve. E poi per i successivi mesi con cura lo elaboro nei dettagli.

Nel 2015 hai vinto il programma polacco ”Must be the Music”. Come mai hai deciso di partecipare al talent show italiano?

L’idea, come la maggior parte delle cose nella mia vita, è stata spontanea. I miei genitori lavoravano in Italia quando erano studenti, e hanno dei bei ricordi di quei tempi, specialmente mia mamma, che parla fluentemente l’italiano e ama la cultura italiana. È stata lei a parlarmi a lungo dell’Italia, paese che mi interessava molto. L’anno scorso è stato molto proficuo per quanto riguarda la diffusione del mio lavoro all’estero. Alla fine del 2017 uno dei miei arrangiamenti ha ricevuto più di 30 milioni di visualizzazioni su internet e, pochi mesi dopo, il video con una mia interpretazione del Capriccio di Paganini ha ricevuto 14 milioni di visualizzazioni, ed anche il mio arrangiamento della 5^ sinfonia di Beethoven nel corso di un mese ha registrato 14 milioni di visualizzazioni. E la maggior parte degli utenti che seguivano le mie composizioni erano stranieri. Non avrei mai immaginato di ottenere tali risultati e il fatto che la mia musica sia stata accolta in modo così positivo all’estero mi ha fatto riflettere. Ho pensato: “vale la pena di presentarsi ad un pubblico più vasto!”. Così ho inviato diverse mie registrazioni al programma Tu Si Que Vales. Ed il resto è arrivato da solo.

Come ti sei trovato a lavorare nel programma con gli italiani?

Il mio soggiorno in Italia non è stato noioso nemmeno per un momento! Gli italiani sono estremamente energici ed aperti alle nuove amicizie, il che ha creato un’atmosfera davvero unica. Le persone che lavoravano al programma erano molto amichevoli e disponibili, il che è stato veramento d’aiuto vista la pressione generale legata alla realizzazione dello show. Tuttavia la sorpresa più bella per me è stata quando, dopo l’annuncio della mia vittoria, tutti i membri della produzione italiana che guardavano il programma dal backstage hanno cominciato a saltare di gioia ed applaudire! Io ero sul palco, ma da quello che mi ha raccontato la mia famiglia ho saputo che tutti erano veramente felici del risultato. Ed è una grande gioia per me perché volevo davvero ottenere la simpatia degli italiani, visto che ero uno straniero. È un ricordo davvero simpatico che al solo pensiero mi fa sorridere!

Hai già avuto occasione di esibirti in vari paesi. Come ti è sembrato il pubblico italiano?

Come ho già detto gli italiani sono molto calorosi quindi suonare per loro è puro piacere, senza contare che quelle che ho fatto in Tu Si Que Vales erano delle esibizioni davvero piene di energia! Quindi posso parlare solo bene del pubblico perché sono stato accolto incredibilmente bene ed in più ho ricevuto una standing ovation sia da parte degli spettatori che della giuria. Le emozioni che mi hanno fatto provare sono state straordinarie e quindi non posso fare altro che ringraziare con tutto il cuore il pubblico italiano ed anche i polacchi che vivono in Italia per il loro sostegno!

Ti senti in qualche modo vicino all’Italia?

I miei inizi con la chitarra sono legati ai brani classici e un gran numero dei compositori e degli artisti più geniali sono italiani quindi, da musicista, trovo naturale apprezzare questo paese. L’Italia è un paese molto musicale, per questo la sento vicina e non vedo l’ora di tornarci per suonare. Inoltre i miei genitori sono profondamente legati all’Italia, molto spesso ricordano i tempi quando lavoravano lì e… quasi lo dimenticavo… a casa mia regna la cucina italiana!

Piani per il futuro?

Ovviamente vorrei che il mio futuro fosse nel mondo della musica. Mi piacerebbe studiare al prestigioso Berklee College of Music di Boston, negli Stati Uniti. Lì vorrei dedicarmi alla composizione di musica da film con la chitarra come strumento principale. Oltre a studiare mi concentro molto sullo sviluppo personale, voglio andare oltre la chitarra. In futuro, spero di combinare musica elettronica e musica d’orchestra con uno stile unico della chitarra. Per ora sono solo progetti ma lavoro intensamente per realizzarli. Molte sono le occasioni che arrivano inaspettate, nel 2019 farò concerti quasi ininterrottamente fino a settembre, la maggior parte fuori della Polonia (per esempio in Sudafrica, in Norvegia, Francia, Malta, Italia, ecc.). È un grande piacere per me, ma si tratta anche di una difficile sfida perché a maggio avrò l’esame di maturità e non è per niente facile cercare di combinare questi tutti questi impegni con lo studio.

Blu Zaffiro, la magia del Lago di Garda

0

foto: Luca Del Sole

Un aprile insolito colora di tinte primaverili i parchi e i balconi di Peschiera del Garda, dove anche i ponti sui canali, come da tradizione, si vestono di gerani per salutare l’arrivo della bella stagione. L’emergenza che ha sorpreso l’Europa e il mondo ha lasciato il suo segno anche qui. Aprile, che tradizionalmente dà inizio alla stagione turistica accogliendo migliaia di affezionati che affollano il centro storico e il lungolago, sembra oggi sussurrare. La quiete che abbraccia la città è surreale, ciononostante l’atmosfera che si respira nel silenzio in riva al lago è magica.

Amata per il suo sole, il mare e le grandi isole, l’Italia più bella è anche quella del Nord, fatta di cime selvagge uniche al mondo, verdi pascoli, pendii innevati e scenari mozzafiato di cui sono teatro quei laghi che, a cavallo tra la Pianura Padana e le montagne più belle d’Europa, costellano la cinta delle Alpi come le gemme di un diadema che adorna il capo di una dama bellissima. Quel Nord, a volte frettolosamente associato all’idea di austerità, freddezza, di sola operosità, che troppo spesso soccombe nel confronto con l’iconografia stereotipata della pizza e del mandolino che ha sdoganato l’immagine dell’Italia nel mondo, ma che in realtà racchiude un patrimonio di bellezza, arte e cultura che offre l’imbarazzo della scelta a chi ne faccia la meta del proprio viaggio.  Basti pensare che dei cinquantacinque siti annoverati tra il patrimonio culturale e naturale del mondo che è possibile ammirare lungo tutta la penisola, ben venticinque si trovano nell’Italia settentrionale. Tra questi Venezia e la Sua Laguna, le Dolomiti, le Colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene o ancora, le Opere di Difesa Veneziane, l’Orto Botanico di Padova e la stessa città di Verona. Esempi di una ricchezza senza tempo, che inesorabilmente seduce chiunque giunga nel Nord-Est d’Italia.

Ed è proprio qui che giace il lago di Garda, già Benaco nella tradizione romana, che si presenta come la sintesi armonica di tanto fascino. Le sue acque nascono infatti nel cuore delle Dolomiti, tra le meraviglie del parco naturale Adamello Brenta e percorrendo le tortuose anse del fiume Sarca ne alimentano il bacino dalla foce di Torbole, per poi riversarsi nel Mincio, cinquanta chilometri più a sud, dalla riva di Peschiera, lambendo i maestosi bastioni veneziani eretti a difesa della città del Quadrilatero. Un microcosmo di colori e profumi intensi, fatto di litorali e promontori inconfondibili. Luoghi unici, tra cui gli scoscesi pendii sulla sponda occidentale, tappezzati dalle antiche limonaie la cui bellezza incantò Johann Wolfgang von Goethe nel suo Grand Tour in Italia, o altri di rara suggestione come il santuario della Madonna della Corona. Sospeso tra terra e cielo, si erge incastonato nella roccia del Monte Baldo, a strapiombo sulla Val d’Adige nell’entroterra del versante levantino. A paesaggi fiabeschi si affianca la magnificenza delle sontuose opere architettoniche che si possono ammirare nell’area, quali la villa in stile neogotico-veneziano dell’Isola di Garda, Villa Bettoni a Gargnano o il complesso del Vittoriale degli Italiani a Gardone Riviera, monumentale opera nata dall’incontenibile estro di Gabriele D’Annunzio ed ultima residenza del Vate.

Un tesoro, quello del lago di Garda, dai mille volti, che non cessa mai di sorprendere, in un’alternanza di scorci mozzafiato tra cui le incantevoli spiagge di Parco Baia delle Sirene e borghi tra i più belli d’Italia, come Tremosine, dove ci si emoziona alla vista di panorami magnifici e Malcesine, dove il Castello Scaligero, Palazzo dei Capitani e il suggestivo porticciolo sono il lascito di tradizioni secolari condivise dalle regioni Veneto, Lombardia e Trentino. Un’eredità che è testimonianza di un crocevia di civiltà che hanno lasciato tracce indelebili del loro passaggio. Dagli insediamenti romani di cui rimangono le meravigliose vestigia delle ville di Desenzano e Sirmione, al retaggio culturale risultato dei fitti rapporti commerciali intrattenuti da sempre con i vicini popoli del centro Europa, gli elementi che contribuiscono a creare un’identità tanto caratteristica del territorio non si contano.

Non stupisce che il lago abbia ammaliato e ispirato con le sue bellezze artisti di tutto il mondo. Dell’ammirazione di Goethe si è già detto, ma le forme del Benaco sono immortalate anche dal magistrale acquerello di Joseph Mallord William Turner e dal pennello di Jean-Baptiste-Camille Corot. Nemmeno il Sommo Poeta tralascia di menzionare i luoghi del Garda. Nel Canto XX (63 – 78) dell’Inferno ritroviamo infatti il lago e Peschiera, che Dante Alighieri cita nel narrare le origini della negromante Manto. Infine, un’ode particolarmente accorata alle grazie del luogo è quella cantata da Valerio Catullo, intimamente legato alla città di Sirmione, di cui racconta la bellezza nel Carme XXXI del suo Liber. Quella stessa Sirmione, protesa sulle azzurre acque del lago, teatro del fatidico incontro tra Ezra Pound e James Joyce, tanto voluto dal saggista statunitense e di cui proprio questa primavera è ricorso il centenario.

L’elenco dei nomi illustri che lo hanno amato proseguirebbe, ma il Garda va ricordato anche per la memoria storica di cui è intriso. Dalle guerre napoleoniche, passando per le Guerre d’Indipendenza combattute per liberare la regione dal giogo austriaco, senza dimenticare gli ultimi anni della Seconda Guerra Mondiale. A seguito della firma dell’armistizio l’8 settembre 1943, il lago diviene scenario del tramonto della dittatura fascista. Con l’avanzata delle truppe anglo-americane che risalgono la penisola dal meridione, Mussolini trasferisce il quartier generale del proprio governo sulla sponda lombarda, dando vita alla Repubblica Sociale Italiana, ricordata ancora oggi come la Repubblica di Salò, dal nome della città sede dei Ministeri della Cultura Popolare e degli Esteri del regime. Scelta per il suo posizionamento strategico e per la vicinanza all’alleato tedesco, la località fece da sfondo ad una delle più controverse pagine della storia d’Italia.

A conclusione di questa breve parentesi storica mi preme riportare una curiosità che assume un valore particolare nello scrivere su queste pagine. Nell’ammirare l’imponenza dei muraglioni di Peschiera, non si può fare a meno di ricordare che queste fanno parte di quelle Opere di Difesa Veneziane che si è menzionato in precedenza e che, il caso vuole, siano state elevate al rango di patrimonio mondiale dell’umanità in occasione della 41esima sessione del Comitato UNESCO tenutasi proprio a Cracovia. Su quelle stesse mura nel 2019 torna a campeggiare orgoglioso il Leone di San Marco, simbolo della Repubblica di Venezia, di cui la trabeazione di Porta Verona era stata deturpata a seguito dell’invasione delle truppe di Napoleone Bonaparte nel 1797 che segnò la caduta della Serenissima. La preziosa scultura in marmo ridona l’antico splendore all’accesso principale della città fortificata, unendosi all’iscrizione latina mai rimossa che cita: “Disce haec moneat praecelsa leonis imago ne stimules veneti cev leo in hoste vigent” – “Questa eccelsa immagine del leone ti dissuada dal provocare i veneti, giacché essi contro il nemico hanno il vigore del leone”. La storia del Leone Alato di Peschiera del Garda rimanda, inevitabilmente, a quella di un altro Leone Marciano, quello che dopo quasi un secolo, grazie all’impegno del Comitato Ambasciatori di San Marco e del Comune di Venezia, ha ripreso il suo posto sulla facciata dell’Istituto di Storia del PAN (Accademia Polacca delle Scienze), all’angolo tra Rynek Starego Miasta e ulica Dunaj a Varsavia. Un aneddoto, una semplice curiosità, addirittura forse una forzatura, ma che qui, tra queste righe, mi piace interpretare come il simbolo di un antico legame tra la patria di Chopin e quella Serenissima Repubblica di Venezia che diede i natali ad Antonio Vivaldi.

Il Garda è il più grande tra i laghi d’Italia: con un’estensione di 368 chilometri quadrati, le sue acque bagnano le provincie di Verona, Brescia e Trento. Il clima particolarmente mite e la bellezza del territorio ne fanno da sempre una delle mete turistiche predilette di visitatori da tutto il mondo. La zona offre pressoché infinite possibilità di svago. Al camping e al relax della balneazione sulle rive del lago, si aggiungono innumerevoli itinerari escursionistici ed enogastronomici, oltre che le attrazioni dei grandi parchi di divertimento di Gardaland, Canevaworld e Movieland, il tutto coordinato da un’intensa e puntuale attività degli enti locali impegnati nella valorizzazione del patrimonio culturale, nello sviluppo e nella promozione del turismo. L’attrattività del Garda è poi confermata da numeri importanti. Secondo i rapporti pubblicati nel 2019, le tre province rivierasche si posizionano tutte tra le prime dieci italiane per flussi turistici. Se poi si osservano i dati relativi a quella di Verona, con oltre 13 milioni di presenze, il turismo gardesano incide addirittura per oltre il 75% della performance complessiva della provincia scaligera. I turisti stranieri ammontano al 76%, con una predominanza di soggiornanti provenienti da Germania e Olanda. Di particolare rilievo è anche la quota di visitatori polacchi, con un aumento rispetto all’anno precedente di circa il 12% per un totale di oltre 200.000 presenze.

Paradiso indiscusso degli sportivi, amatori e professionisti, il Lago di Garda offre grandi spazi e strutture di prim’ordine. Particolarmente adatto alla pratica degli sport a vela è un punto di riferimento per il windsurfing e kitesurfing, mentre la presenza di percorsi panoramici e suggestivi attraggono ogni anno migliaia di cicloturisti, ciclisti e triatleti. A tal proposito è estremamente interessante il progetto Garda Bike, tuttora in corso d’opera, che prevede la realizzazione di una pista ciclabile di quasi 200 km che consentirà di compiere il giro del lago attraverso un percorso che si snoda lungo tutto il suo sviluppo costiero. Infine, la particolare conformazione delle alture che circondano il bacino, fanno dell’area un vero e proprio santuario dell’arrampicata sportiva. Lungo le strapiombanti pareti del Garda sono infatti presenti una moltitudine di falesie, dove i rocciatori possono cimentarsi lungo le vie tracciate nella Dolomia che emerge a picco dal blu delle profondità del lago. Impossibile quindi non ricordare la città di Arco di Trento, sulla sponda settentrionale. Dal 1987, la città dell’omonimo castello ospita infatti il Rock Master, prestigiosa competizione internazionale di arrampicata che ogni anno richiama sul Garda i migliori tra i free climbers al mondo.

Ritengo pretenzioso cercare di condensare in poche righe tutto quello che il lago offre, le emozioni che suscita: semplicemente non è possibile. Ma perché non provare almeno a condividerne un po’?

Ricordo ancora quando durante le estati, da bambino, percorrevo la gardesana orientale per raggiungere le Dolomiti di Brenta dove ero solito trascorrere qualche settimana. Quelle crode hanno segnato la mia esistenza, ma la vista del Lago di Garda, con le sue spiagge e le sue isole, circondato da boschi e montagne, da allora, non ha mai smesso di togliermi il fiato ogni volta che torno. Uno spettacolo che rapisce il cuore, che culla chi si lasci trasportare. Personalmente considero un privilegio il poter passeggiare sul lungolago respirando il profumo dei pini mentre i cigni scivolano eleganti e fieri sull’acqua. Sono nato in Liguria, sono legato alla mia terra e il mare è una parte importante di me, ma a tutti quelli che mi chiedono quali luoghi d’Italia io suggerisca di visitare nel loro viaggio, rispondo sempre con la stessa domanda: “Conosci il Veneto? Conosci il Lago di Garda?”

Non è dato sapere cosa aspettarsi dall’estate oramai alle porte, ma è molto probabile che sarà diversa da quelle cui siamo abituati. Si può immaginare che i vicoli dei borghi medievali non brulicheranno di gente e che le spiagge, sotto il sole di luglio, saranno meno frequentate del solito. Il traffico per le strade sarà meno congestionato e l’aria un po’ più pulita. La sera ci sarà meno rumore, forse meno musica, ma nel silenzio, con il solo suono dello sciabordio delle onde che si increspano accarezzando i ciottoli sulla battigia, il lago, ne sono sicuro, sembrerà ancora più magico.

E tu? Conosci il Lago di Garda?

Il fascino nascosto della Valpantena

0

Alla scoperta di una valle sopra Verona rimasta autentica e capace di offrire al visitatore esperienze in natura, oltre ad attrarre i winelover più esigenti.

Nomen omen, dicevano gli antichi. E passeggiando o pedalando tra boschi e vigneti in Valpantena si può comprendere il perché questo nome significhi “Valle di tutti gli Dei”.

Viti, ulivi, ciliegi, ma anche prati e boschi che coprono vasta parte dell’area, oltre alle imponenti cave di marmo rosso veronese, sono infatti il contesto naturale che attrae gli amanti della natura e delle attività all’aria aperta, ma anche i winelover in cerca di un’espressione intensa nelle terre che rientrano nella denominazione della Valpolicella.

Tra Medioevo e Rinascimento la nobiltà veronese ha fatto della bassa Valpantena il proprio luogo di villeggiatura, costruendo ville e piccoli castelli circondati da mura, generando una separazione tra nobiltà e mondo rurale che si accentua nel periodo della dominazione veneziana. Ecco perché oggi, tra i boschi e a valle, ville venete e cantine sono milestone di un paesaggio che affascina.

ESPERIENZE NELLA NATURA

La Valpantena si estende a nord-est dalla città di Verona fino alle pendici delle Prealpi venete, attraversando boschi e borghi che conservano il fascino della tradizione. È da sempre un luogo di interesse naturalistico, grazie alla sua posizione geografica, alla varietà di ambienti naturali e alla ricchezza della flora e della fauna. La zona è anche ideale per il birdwatching, considerata la presenza di numerose specie di uccelli migratori.

Percorsi escursionistici ed esperienze in vigneto, cicloturismo, arrampicata, equitazione, rafting, pesca, golf rientrano nel ventaglio di attività che la Valpantena offre al visitatore. Tra le attrazioni naturali in valle spicca il Ponte di Veja, un arco naturale di roccia che si erge per 50 metri di altezza, creato dall’erosione di un antico fiume sotterraneo. Sotto il ponte si trova una grotta dove si possono osservare stalattiti e stalagmiti.

A ridosso della valle, il Parco naturale della Lessinia si estende per oltre 10mila ettari tra boschi, prati e malghe, dove l’escursionista – a piedi, in bici o a cavallo – può completare l’esperienza gustando i sapori autentici di una terra rimasta quasi incontaminata. Più a est, in direzione della Valpolicella classica, il Parco delle Cascate di Molina offre l’opportunità di trekking affascinanti fino a una serie di cascate d’acqua immerse nel verde.

PARADISO PER WINELOVER

Nella trama avvincente di storia, arte e spiritualità si innesta la vocazione vitivinicola della Valpantena. Protetti dalla natura, vigneti e uliveti sono parte integrante del genius loci. La valle è parte del comprensorio della Valpolicella ed è stata riscoperta soprattutto negli ultimi trent’anni grazie ad un nucleo di cantine storiche. Le sue caratteristiche geomorfologiche dei suoli (soprattutto calcarei) e l’ambiente poco antropizzato consentono di ottenere vini eleganti e vibranti, che possono essere preservati nella loro integrità senza concentrazioni e affinamenti eccessivamente invasivi.

È proprio dal mondo del vino che è partito il progetto Rete Valpantena (www.valpantena.org), un network creato per valorizzare la vallata promuovendo l’identità, il patrimonio umano e culturale in tutte le sue espressioni. Le aziende agricole e vitivinicole Bertani, Brigaldara, Costa Arènte, La Collina dei Ciliegi, Pernigo e Ripa della Volta hanno avviato il percorso coinvolgendo anche Villa Pellegrini e Villa Arvedi, due incredibili esempi di architettura veneta, e il laboratorio di lievitisti InFermentum.

La Collina dei Ciliegi con il Relais Ca’ del Moro, Costa Arènte e Brigaldara con la Locanda Case Vecie offrono anche ospitalità di ottimo livello in collina ed esperienze gastronomiche speciali.

L’uomo che ha salvato la Torre Pendente

0
fot. Matteo Bertolin

traduzione it: Agata Pachucy

Nell’ottobre del 2023 l’opinione pubblica italiana ha trattenuto il fiato. Il simbolo della città, la torre Garisenda nel centro di Bologna, rischiava di crollare. I media hanno ricordato la situazione di Pisa, dove negli anni Novanta una pericolosa inclinazione della torre minacciava una disastrosa caduta. Uno dei protagonisti di quest’ultima storia era il professore dell’Università di Torino Michał Jamiołkowski.

Le torri venivano costruite nell’Italia medievale per due motivi: per proteggere il ricco proprietario da eventuali rapine e per sottolineare il suo status sociale. Nella storia dell’Italia settentrionale, i crolli di alte torri erano piuttosto comuni. A volte, per evitare la catastrofe, si riduceva l’altezza delle torri traballanti, ma nel caso della torre di Pisa questa soluzione non era praticabile.

In questo caso, i metodi standard non hanno avuto successo. Una dopo l’altra, dieci squadre hanno provato a salvare il monumento. Ovviamente, le autorità della città non erano affatto intenzionate a raddrizzare la torre completamente. Alla fine, il compito è stato affidato a Jamiołkowski, che ha guidato una squadra di dieci specialisti. Sono stati utilizzati metodi innovativi per consentire alla forza di gravità di “raddrizzare” la struttura. La struttura è stata finalmente stabilizzata e, dopo undici anni, è stato annunciato il completamento positivo dei lavori. Un’indagine di follow-up nel 2020 ha dimostrato che il comune non dovrebbe avere problemi con il suo monumento per altri 300 anni.

Il professor Michał Jamiołkowski è diventato un eroe nei media italiani e gli è stato assegnato il titolo di cittadino onorario di Pisa. Questo straordinario ingegnere e geologo era noto anche nell’ambiente sportivo polacco, perché negli anni Cinquanta giocava a pallacanestro per la squadra Polonia Warszawa e, secondo le statistiche del club, segnava una media di sei punti a partita. Così come lo sport forma le migliori qualità di una persona, ovvero la costanza nell’azione e l’impegno per vincere, il lavoro di quest’uomo fuori dal comune lo ha portato a raggiungere le vette della professionalità nell’affrontare i progetti ingegneristici più impegnativi degli ultimi anni.

Jamiołkowski, scomparso lo scorso luglio, sarà ricordato dai polacchi come un atleta e un ingegnere eccezionale, mentre gli italiani lo ricorderanno come l’uomo che ha salvato la Torre di Pisa.

La ciociara, l’ultimo film neorealista

0
Matka i córka / La ciociara

Si dice che di solito un adattamento cinematografico non sia mai all’altezza dell’originale letterario. Tuttavia ci sono adattamenti che non solo sono alla pari con il contenuto artistico del libro, ma che diventano opere d’arte indipendenti. Tra questi rientrano senza dubbio film come: Il Padrino, Via col vento o Apocalypse Now (tratto da Cuore di tenebra). Questo aspetto riguarda pure i lavori di uno dei più grandi scrittori italiani del Novecento: Alberto Moravia dalle cui opere furono realizzati una trentina di film girati in gran parte da registi famosi dell’epoca come: Luigi Zampa, Damiano Damiani o Jean-Luc Godard. Ma forse ci sono solo due adattamenti che sono paragonabili con la scrittura moraviana e che sono diventati dei classici del cinema internazionale: Il conformista di Bernardo Bertolucci (basato sul romanzo scritto nel 1951) e La ciociara di Vittorio De Sica (tratto dal testo omonimo del 1957).

Matka i córka / La ciociara

Fascismo mostrato in due prospettive

Per quanto riguarda la tematica dei romanzi moraviani, possiamo individuare due tipologie più importanti: le opere appartenenti alla corrente esistenzialista e quelle, come direbbe lo stesso Moravia, riguardanti “il mito nazionalpopolare.” I due romanzi di cui ci occupiamo in questo articolo sono degli esempi perfetti visto che Il conformista appartiene alla prima categoria e La ciociara alla seconda. Entrambi i testi mostrano quel che accadde in Italia durante la Seconda guerra mondiale; ma in modi totalmente diversi: Il conformista mostra il fascismo “dal di dentro” perché il protagonista (Marcello) appartiene al sistema totalitario. La ciociara presenta l’esperienza bellica attraverso gli occhi dei civili: la protagonista è la madre di una delle marocchinate (così si definivano le violenze sessuali operate dai militari marocchini inquadrati nell’esercito francese).

Per quanto riguarda Il conformista non è una rappresentazione stereotipata dei “fascisti cattivi”. Marcello è un personaggio molto “umano”, le cui scelte sbagliate lo hanno portato al suo fallimento nella vita. Alla fine il protagonista si rende conto che quando il fascismo cade, lui “non è che un misero assassino” e quindi mostra di essere un uomo che capisce e non solo una marionetta del regime.

Matka i córka / La ciociara

La situazione è completamente diversa con Cesira de La ciociara la quale si presenta come un personaggio semplice che ha delle difficoltà nel leggere, tuttavia sa contare bene per cui riesce a lavorare nel suo negozio. La protagonista rappresenta una piccola borghese che non è consapevole di ciò che accade intorno a lei e quindi desidera solo realizzare i propri affari. Cesira non è in grado di immaginare il disastro della guerra e quale impatto può avere. Solo quando le circostanze sono veramente gravi (lei non riesce più a gestire né la sua attività professionale né rimanere a casa propria a Roma), il personaggio principale si rende conto di odiare la guerra, mostrando in tal modo il processo della maturazione della donna.

La prosa moraviana sul grande schermo

Per quel che concerne La ciociara, la sua versione cinematografica fu girata quasi immediatamente nel 1960 mentre quella de Il conformista quasi venti anni dopo la pubblicazione del romanzo quindi nel 1970. Prima di tutto, vediamo come Bertolucci realizzò il romanzo di Moravia, dando ad ogni scena un carattere simbolico attraverso la fotografia del celebre Vittorio Storaro.

Matka i córka / La ciociara

Nella prima scena osserviamo il protagonista da bambino quando incontra un uomo che desidera stuprarlo e la tragedia vissuta avrà impatto su tutta la sua vita. Questa scena è curiosamente analoga a quella dello stupro de La ciociara, visto che l’abuso sessuale si svolge vicino ad un simbolo religioso: nel caso de Il conformista, è il crocifisso. Le altre similitudini si riscontrano nel fatto che la vittima sia un bambino innocente e che l’autista con la rivoltella sembri un soldato.

La seconda scena rivela l’alienazione di Marcello durante la sua festa di matrimonio che cerca ossessivamente di apparire normale. Le nozze di Marcello sono il ritratto del fascista triste e sono analoghe alla terza scena del ballo, che si dimostra più grottesca di tutte: la folla lo cattura e lui non riesce più a scappare. L’ultima scena dimostra perfettamente che il personaggio principale si sente “inadeguato” e che probabilmente non riesce mai a trovare la tanto desiderata normalità.

La ciociara girata “nello spirito” del neorealismo

Per quel che concerne l’adattamento cinematografico de La ciociara, anche se fu realizzato nel 1960, quindi cronologicamente dopo il movimento neorealista1, è un film neorealista nel senso più specifico del termine. Tuttavia, non mancano anche critici che sostengono che la fine del neorealismo fu segnata nel 1960 dal film di Luchino Visconti Rocco e suoi fratelli2 e in tal senso La ciociara è una delle ultime pellicole del genere. Comunque bisogna prendere in considerazione che l’adattamento del romanzo presenta la maggior parte dei tratti caratteristici dei film neorealisti come: il motivo della Seconda guerra mondiale, le condizioni del popolo semplice, le ambientazioni in luoghi realistici e la povertà, la quale pure “recita il ruolo” nel film3. La differenza più grande sta nel fatto che ci siano attori professionisti come Sophia Loren (Cesira), Jean-Paul Belmondo (Michele), Eleonora Brown (Rosetta).

Vale la pena sottolineare che la pellicola è in bianco e nero e per questo ci sono tanti giochi di contrasti significativi. La situazione storica dell’epoca viene ricostruita meticolosamente e si possono notare alcune scene che mostrano il conflitto militare oppure altre che mostrano il popolo delle montagne.

Matka i córka / La ciociara

Per lo spettatore del XXI secolo è importante che i bombardamenti vengano girati in modo realistico senza l’uso di effetti speciali. Un’ulteriore peculiarità si esprime nella naturalezza della rappresentazione dei montanari con tutti i dettagli folcloristici. Durante il film vediamo anche l’impatto della guerra sulla popolazione civile. Comunque, la visione degli orrori della guerra non si presenta in maniera molto realistica ma piuttosto poetica, il che costituisce un valore forte della pellicola. Quel lirismo si esprime soprattutto nella colonna sonora che sottolinea l’atmosfera delle scene nonché nell’inquadratura prevalentemente per i primi piani che si focalizzano sulle emozioni dei protagonisti.

La madre e la figlia

L’aspetto che attira l’attenzione è il rapporto molto naturale tra la madre e la figlia. Cesira incarnata da Sophia Loren (all’epoca l’attrice aveva 26 anni) diventa protettiva e tenera mentre Rosetta recitata da Eleonora Brown (quando recitò nel film aveva solo 12 anni!) si mostra come una ragazza innocente e legata alla madre. La trama si svolge in modo tale che possiamo osservare gli avvenimenti attraverso il loro rapporto: la felicità di stare insieme prima della guerra (1), il viaggio verso il Sud (2;3), l’arrivo a Sant’Eufemia (4) e la scomparsa di Michele (5).

Per lo spettatore, la dimensione dell’amore tra madre e figlia diventa fondamentale, poiché “si sente” coinvolto e condivide delle emozioni guardando il film. La ciociara, come le altre opere neorealistiche, si distingue per il forte messaggio emotivo che trasmette, principalmente trattando della vita delle persone più deboli (analogamente a Ladri di biciclette con il ritratto del padre e del figlio che si vogliono bene nonostante tutte le avversità).

Inoltre la lingua dei personaggi è di un registro abbastanza semplice, come nella maggior parte dei film neorealisti. Solo Michele usa il linguaggio dell’intellettuale che esprime opinioni sulla guerra, essendo una voce “consapevole.” La pellicola presenta l’antifascista come persona totalmente diversa dai contadini. Alla fine Michele diventa il protagonista tragico che si prende cura degli altri, ma è incompreso dal popolo semplice che lo tratta da professore perché si è laureato.

Conoscere la vita attraverso la violenza

Per la maggior parte del film Cesira e Rosetta hanno un buon rapporto; tuttavia, il momento di svolta avviene con lo stupro della ragazza. Dopo quell’avvenimento cambia il legame tra madre e figlia. Prima di tutto colpisce l’espressione di Rosetta, che rimane in stato di shock psicologico (1). Poi c’è la madre che è sconvolta visto che non è riuscita a salvare la figlia (2), il che si trasforma in disperazione assoluta (3). In seguito possiamo vedere la distanza che si è creata tra le due donne (4).

Lo stupro è il momento clou di tutta la pellicola, dopo di cui la figlia diventa una prostituta, mentre la madre è completamente distrutta. È anche il momento in cui lo spettatore rimane più sconvolto: è pieno di compassione nei confronti delle protagoniste, visto che conosce la storia del crollo dell’amore familiare. La violenza subita dalla fanciulla ridefinisce tutto il suo rapporto con le altre persone e svolge nel film lo stesso ruolo del furto della bicicletta in Ladri di biciclette: presenta il destino tragico di un individuo, ma anche di tutta la nazione che vive una situazione storica analoga. Per di più il sesso, e la sua scoperta, è un tema fondamentale nella scrittura moraviana: definisce le relazioni umane e mostra il mondo così com’è. In questo senso lo stupro è in qualche modo “indispensabile” per diventare adulti e percepire il male che ci circonda.

Matka i córka / La ciociara

Sofferenza che purifica

Nella pellicola viene espresso il paradosso della liberazione: i danni subiti dai cosiddetti “liberatori” sono i medesimi, oppure più gravi, di quelli patiti dagli oppressori. La scena dello stupro diviene molto simbolica: sopra la chiesa abbandonata volano gli uccelli, mentre il tempio sembra vuoto come se dentro non ci fosse Dio. Alla fine, dopo le tante relazioni di Rosetta, la madre esprime la propria disperazione che, comunque, non fa gran impressione sulla figlia. Solo quando Cesira le parla della morte di Michele, la figlia scoppia a piangere e “si ricrea l’innocenza” in senso morale. Il dolore ha una funzione purificatrice e la fanciulla vive in qualche maniera un senso di colpa.

La ciociara è emozionante, visto che il pubblico osserva la sofferenza di persone innocenti la cui storia è commovente. Si percepisce una specie di catarsi che purifica gli spettatori, infonde pietà per gli avvenimenti dell’opera e permette al pubblico di liberarsene. L’adattamento si manifesta anche come il ritratto della guerra con tutti gli orrori legati ad essa e per questo motivo costituisce un forte e vero commento critico nei confronti di ogni conflitto militare.

 

Note

La maggior parte dei critici cinematografici dice che la fine del movimento sia stato più o meno nel 1951 http://brevestoriadelcinema.altervista.org/20-1.html (verificato il 10.02.2020).

2 Helman, A. (2012), Neorealizm: próby definicji, in: T. Lubelski, I. Sowińska, R. Syska (a cura di),  Kino klasyczne, Universitas, p. 579.

3 Ivi, p. 596.

Gazzetta Italia 105 (giugno-luglio 2024)

0

Lo splendido borgo ionico di Le Castella vi accoglie sul numero 105 di Gazzetta Italia proponendo un approfondimento su una terra bellissima, poco nota e piena di contrasti: la Calabria. Tra i viaggi parleremo di Agrigento e delle avventure ciclistiche in Italia di Bartek Ramza. Vi faremo scoprire la bella storia di rinascita attraverso lo sport di Bebe Vio, le esperienze italo-polacche del disegnatore Maurizio Di Bona e ancora la storia di Adrian il parrucchiere varsaviano-romano. Per la rubrica di cinema parleremo del grande Nino Manfredi nella sua interpretazione di Girolimoni, e di quanta Italia c’è nella serie “Doctor Who”. Per chi impara l’italiano segnaliamo l’intervento del professor Tucciarelli su “Falsi amici: le trappole della traduzione”. E poi ancora parleremo della mitica Lancia Aurelia, dell’importanza dello iodio nella nostra alimentazione, e troverete anche ricette e tanto altro! Insomma recuperate online o negli Empik la vostra copia di Gazzetta Italia!

Il Sogno continua!

0

L’XI edizione del Torneo di Calcetto Italiani in Polonia ha portato nel fine settimana del 1-2 giugno (2024) oltre cento calciatori – italiani, polacchi e di altre varie nazionalità – a sfidarsi sui campi dell’AZS Łódź. Lo storico Torneo di Calcetto, che è la più importante e partecipata manifestazione sportiva degli Italiani in Polonia, è stato impreziosito dalla presenza dell’Ambasciatore d’Italia Luca Franchetti Pardo che dopo l’intervento di saluto ha presenziato alla tradizionale cerimonia d’apertura con prima il sorteggio dei gironi – con estrazione delle squadre da parte della signora Marta, moglie dell’Ambasciatore – e poi gli inni nazionali italiano e polacco. Graditissima presenza anche quella di Amedeo Piovesan che nel lontano ottobre del 2014 ha ideato e organizzato il primo Torneo giocatosi a Łódź e che è poi diventato itinerante.

Sul campo ad avere la meglio su tutti è stata ancora una volta la squadra Il Sogno di Varsavia che battendo in finale i padroni di casa del KTM Łódź per 3-1 ha bissato la vittoria dell’anno scorso. Nella finale per il terzo posto l’A.C. Wawa si è imposto ai rigori sul Real Poznań, dopo che la partita si era conclusa sul 4-4. Finali combattute che sono seguite a due equilibratissime semifinali: KTM Lódź-Real Poznań 2-1 e Il Sogno di Varsavia- A.C. Wawa 3-2 dopo il tempo supplementare. La squadra di Łódź si è comunque consolata con i premi al miglior portiere Kamil Marcinczak e al miglior cannoniere Maciej Danecki. Invece miglior giocatore è stato Filip Kacperkiewicz de Il Sogno di Varsavia. Coppa fair play all’Atletico per niente Wrocław che non preso neanche una ammonizione.

Sabato prima del via al Torneo si è svolta la partita memorial “Angelo ed Ergest per sempre con noi” per ricordare due ragazzi, che in passato hanno giocato per Łódź, scomparsi prematuramente. Una partita giocata da vecchie glorie del Torneo, ovvero tra “ragazzi” che per l’occasione sono tornati a calcare un campo di gioco dopo anni d’assenza. A seguire, incuranti dell’arrivo della pioggia, le 8 squadre, divise in due gironi da 4, hanno aperto le ostilità regalando al pubblico presente la bellezza di 56 gol in 12 partite il sabato e 58 gol nelle 12 partite del tabellone finale della domenica! Questi i piazzamenti: Il Sogno di Varsavia, KTM Łódź, A.C. Wawa, Real Poznań, Warszawa United, It. a Wrocław, Ital3miasto, Atletico per niente Wrocław.

Tra gol, rovesciate, traverse, dribbling e innumerevoli palloni persi oltre le reti di recinzione anche tante emozioni per mogli, fidanzate e figli e pure tanti ottimi panini sfornati dall’infaticabile squadra del Comites e di Shardana, che la sera hanno pure offerto gelati e un ottimo aperitivo sardo.

Il Torneo patrocinato dall’Ambasciata e organizzato da Comites, Gazzetta Italia insieme a Enrico Monti, Luigi e Melania Noto, è stato reso possibile dal supporto fondamentale degli sponsor: North Cost, BG Tech, Ristorante Mare e Monti, Across Europe, La Bottega d’Enrico, Italtecnica, Italia Lody Caffè, Andrea Cortassa.

A chiusura di questa bella edizione già si pensa dove giocare la prossima, tra le città candiate: Wrocław e Lublino.

 

Sergio Leone – un italiano che inventò l’America

0
fot. Gianfranco Tagliapietra

traduzione it: Agata Pachucy

Leone viene spesso definito il “re dello spaghetti western”. Credo però che questa sia un’immagine quantomeno incompleta. “Io sono il vento”, cantava Arturo Testa nel 1959 durante il Festival di Sanremo. A mio avviso, Sergio Leone, nato 30 anni prima, il 3 gennaio 1929, è stato proprio un vento. Una brezza le cui numerose folate hanno modificato in modo permanente il panorama cinematografico.

Testa arrivò secondo nella classifica del festival all’epoca. Ho l’impressione che sia stato un po’ così anche per la carriera del regista romano che, pur essendo uno dei più grandi e influenti registi di tutti i tempi, per quelli dell’Academy non meritava neanche una nomination agli Oscar. Il prossimo 30 aprile sarà il 35° anniversario della morte di Sergio Leone. Solo oggi possiamo apprezzare appieno il contributo che il regista ha dato al cinema mondiale.

La filmografia di Leone è piuttosto breve. Ha iniziato assistendo Vittorio de Sica in “Ladri di biciclette” (1948). Ha poi lavorato, tra gli altri, a Quo Vadis (1951) e BenHur (1959), scrivendo nel frattempo anche le proprie sceneggiature. L’occasione arriva nel 1959, quando sostituisce Mario Bonnard, regista de “Gli ultimi giorni di Pompei”. Due anni dopo realizza “Il colosso di Rodi”, il suo primo lungometraggio indipendente. Ma la vera fama arriva con la realizzazione del successivo “Per un pugno di dollari” (1964), interpretato da Clint Eastwood. “Senza dubbio il punto forte di questo film, che ha avuto successo strepitoso in Italia e altrove in Europa, è il personaggio del fuorilegge interpretato da Clint Eastwood, l’attore americano che in precedenza aveva interpretato il ruolo di un avventuriero nella serie televisiva Rawhide”, scrisse il New York Times qualche anno dopo la prima. Eastwood recitò anche nei film successivi della cosiddetta “Trilogia del dollaro”: “Per qualche dollaro in più” (1965) e “Il buono, il brutto e il cattivo” (1966). Si può dire che fu Leone a scoprire il talento di Eastwood, mostrandone anche il raggio d’azione.

“Ho sentito parlare per la prima volta di Sergio Leone quando ho visto “Per un pugno di dollari”. Ho visto che era un grande film, ma i critici non lo apprezzavano. In Italia non capivano Sergio, non gli piaceva. Hanno iniziato a capirlo molto più tardi, con il suo ultimo film, ma era troppo tardi”, scrisse Dario Argento nel 2009 sulle pagine del britannico The Guardian.

Inizialmente, la critica accolse il film di Leone in modo piuttosto negativo. A ciò contribuì anche lo scandalo delle accuse di plagio de “La guardia del corpo” (1961) di Akira Kurosawa. Il regista giapponese andò in tribunale e vinse la causa. L’italiano ammise di essersi ispirato, ma non ritenne di aver plagiato.

Con il senno di poi, tuttavia, si può dire che è andata bene così. Ciascuna delle due parti ne ha tratto vantaggio. Kurosawa ne ha ricevuto profitto finanziario e i suoi film hanno suscitato maggiore interesse. Leone, invece, ha costruito qualcosa di molto importante, un genere a sé stante, sulla base di un’idea altrui, scoprendo al contempo il talento di Eastwood. È successo lo stesso con Ennio Morricone. Il compositore considerato oggi uno dei più grandi di sempre. Sono stati i film “del dollaro” a mostrare la portata del talento dell’artista romano, permettendogli di lavorare con i migliori registi, ispirando generazioni di cineasti. “Sono cresciuto ascoltando L’Estasi dell’oro”, ha sottolineato Quentin Tarantino.

Bisogna notare che, durante i primi giorni di lavorazione del film, si è scoperto che Leone e Morricone si conoscevano fin dall’infanzia, in quanto entrambi frequentavano la scuola elementare di San Giovanni a Roma.

“Ci siamo conosciuti all’età di sette anni, credo al terzo anno di scuola elementare, ma poi non ci siamo più incontrati. Solo in seguito, quando ero a casa mia a scrivere le musiche per il suo film “Per un pugno di dollari”, che lui mi chiese di fare dopo aver ascoltato le colonne sonore che avevo scritto per due precedenti film western. Gli piaceva la mia musica ed era convinto di questa collaborazione”, ha ricordato anni dopo Ennio Morricone.

Alcuni critici ritengono che sia la musica di Morricone a rendere speciali i film di Leone. È difficile non essere d’accordo, ma questo non significa sminuire il lavoro di Leone. Il compito di un regista è, tra le altre cose, quello di trovare le persone giuste e dare loro lo spazio per mostrare tutto il loro talento. Sergio Leone faceva esattamente così, permetteva agli artisti eccezionali che ha trovato di mostrare la pienezza della loro unicità. Un modo di lavorare che caratterizza solo i più grandi. Morricone compose anche le musiche dei film successivi di Leone: “C’era una volta il West” (1968) con Claudia Cardinale, Henry Fonda e Charles Bronson, “Giù la testa” (1971) con James Coburn e l’opus magnum del regista italiano, “C’era una volta in America” (1984).

All’inizio degli anni Settanta, proposero a Leone di girare “Il Padrino” (1972). Rifiutò perché non voleva glorificare la mafia. Tuttavia, in seguito si pentì della sua decisione. Alla fine, il film tratto dal romanzo di Mario Puzo, fu realizzato da Coppola in modo così brillante che a me personalmente non dispiace che Leone non l’abbia fatto. In più se avesse effettivamente realizzato “Il Padrino”, forse non avrebbe fatto “C’era una volta in America”, un film descritto come un “Padrino ebreo”, che, per inciso, al regista non piaceva molto. Questo non è un film sui gangster. Anzi, è un film surreale sulla memoria, sul passare del tempo, sulla nostalgia. “È anche un omaggio al cinema con note del mio pessimismo”, confessò il regista qualche anno dopo la prima. Leone ci riporta nell’America degli anni Venti, mostrando la storia di cinque ragazzi che crescono in un quartiere ebraico di New York. Il film, interpretato da Robert De Niro, James Woods, Elizabeth McGoven, Jennifer Connelly e Joe Pesci, è oggi riconosciuto come uno dei più grandi capolavori della storia del cinema.

Nel 1989 inizia a preparare un film sull’assedio di Leningrado. Tuttavia, pochi giorni prima di firmare il contratto, fu colpito da un infarto. Muore il 30 aprile a soli 60 anni. Nel 2022 è uscito il documentario sulla sua vita, intitolato “Sergio Leone: l’italiano che inventò l’America”.

Di draghi e dintorni

0

Passeggiando sotto le mura del Wavel — l’imponente Castello Reale di Cracovia — è impossibile non imbattersi nel buio ingresso di una grotta. Una macchia arruffata di alberi la cela parzialmente e una statua ne fa da guardiano: annerita, ruvida d’aspetto, raffigura un drago rampante. È Smok Wawelski, il Drago di Wavel. Con le sue sei zampe e il respiro infuocato, la statua è una delle icone della città.

Figure dense di significati, ancora oggi i draghi popolano l’immaginario collettivo di oriente e occidente. Eppure, per quanto antichi, persino loro risentono dei tempi moderni, di una società segnata dai cambiamenti climatici, dai conflitti e dal progresso scientifico.

Ne abbiamo parlato con Michele Bellone, autore di Incanto. Storie di draghi, stregoni e scienziati, comunicatore della scienza e curatore editoriale della sezione saggistica per Codice Edizioni. Ci ha raccontato il ruolo che queste creature leggendarie hanno oggi nel mondo scientifico.

Un drago, tanti draghi 

Una premessa è doverosa. Dobbiamo parlare di draghi, al plurale, per ricordare le molte forme che hanno assunto nell’araldica, nei miti antichi e nella storia dell’arte: forme che hanno reso pressoché impossibile realizzarne una tassonomia univoca.

«Prendete il celebre dipinto San Giorgio e il drago di Paolo Uccello. Lì, il drago raffigurato ha quattro arti – due ali e due zampe – e non sei, come emerge da tante rappresentazioni storiche e artistiche. Ma chi, come me, è amante dei giochi di ruolo, sa bene che sono le viverne ad avere quattro arti, non i draghi. Eppure, quello ritratto da Paolo Uccello era un drago, come pure quelli del Trono di Spade, anch’essi dotati di quattro arti», racconta Bellone.

«Posso fare un altro esempio, sempre riferito all’Italia. El bisson, ossia il Biscione milanese, simbolo storico della casata dei Visconti e poi della città di Milano – ripreso in molti altri stemmi, da quello dell’Alfa Romeo all’Inter – pare sia stato ispirato dalla raffigurazione del drago Tarantasio, che secondo le leggende abitava un antico lago nei pressi di Lodi».

In una delle sue rappresentazioni iconiche, Tarantasio aveva due piccole ali, due zampe e un lungo corpo strisciante, simile appunto a quello di un serpente. «In effetti, i draghi dell’immaginario italiano tendono a essere raffigurati più come creature paludose e serpentesche che non come i draghi centro-nord europei. Loro sì, più simili a quelli diventati famosi grazie al cinema.»

Il filo conduttore che unisce la tradizione europea è semmai il vedere nei draghi dei grandi rettili. Anche in questo caso, però, il panorama globale è più variopinto: «I draghi della tradizione orientale mescolano parti di pesci, mammiferi e rettili: non sono mostri maligni, bensì una rappresentazione composita di molte specie diverse simboleggiante le forze naturali. Mentre nell’America centrale vengono rappresentati come giganteschi serpenti piumati, come il famoso Quetzalcoatl».

Draghi al servizio della scienza

Questo caos di forme anatomiche è fondamentale per iniziare a capire un possibile ruolo dei draghi nel mondo scientifico: essere uno splendido caso studio immaginario. Bellone fa un esempio: «Nel 1976, il biologo dell’Università di York Peter J. Hogarth, pubblicò un articolo sul Bullettin of British Ecological Society nel quale prendeva in considerazioni diversi aspetti dell’ecologia e dell’anatomia dei draghi, proponendo un’analisi critica alla luce degli studi darwiniani sull’evoluzione».Qualche mese dopo gli rispose il collega Robert M. May sulla celebre rivista Nature. Il professore di Oxford fece notare che, nella sua analisi, non aveva considerato un aspetto. Se si guarda all’evoluzione dei vertebrati terresti, uno dei tratti più conservati nel tempo è la morfologia tetrapode, cioè basata su quattro arti. I draghi però, contando le ali, ne hanno sei. «Se esistesse una linea evolutiva esapode, vorrebbe dire che i draghi sono più imparentati con il pegaso che con i rettili, e il pegaso sarebbe più imparentato con loro che non con un unicorno o un normale cavallo». La somiglianza tra draghi e viverne a quel punto diventerebbe un fenomeno noto come evoluzione convergente: rami diversi dell’albero della vita sviluppano tratti simili quando occupano nicchie ecologiche affini.

Si tratta di un gioco, ovviamente. Ma è un gioco prezioso per chi si occupa di evoluzione.

La biodiversità dietro i draghi

I draghi però non rappresentano solamente un caso studio utile a mettere alla prova i nostri criteri di classificazione. Immaginare come potrebbero muoversi, volare o sputare fuoco se esistessero realmente è un’ottima scusa per indagare le soluzioni che la biodiversità ha prodotto per ottenere risultati simili.

In Incanto, Bellone ne cita uno particolarmente sorprendente: i Brachininae. Si tratta di una famiglia di insetti comunemente nota come coleotteri bombardieri. Quando minacciati, questi animali sono in grado di emettere un getto di liquido rovente, ottenuto grazie a una miscela di enzimi, perossido di idrogeno e idrochinone che, combinati, portano la reazione a una temperatura molto elevata. Sono insetti a livello di qualsiasi drago sputafuoco, con il pregio di esistere davvero!

Il rapporto tra draghi e biodiversità non è unilaterale. «Un conto è se devi raffigurare un drago in un’immagine statica, un altro è se devi farlo muovere in maniera realistica, come in un film o in una serie. A quel punto gli animali che già esistono sono un’ottima fonte di ispirazione per chi deve costruire una figura animata al computer». Uccelli e pipistrelli sono i modelli migliori.

Scrive Bellone nel suo libro: «Gli artisti digitali di Pixomondo, coinvolti nella realizzazione dei draghi del Trono di Spade, hanno studiato l’anatomia delle ali dei polli per capirne i limiti meccanici, mentre per simulare il decollo di Drogon hanno preso spunto dai pellicani.» (p.40)

Draghi come metafore

Draghi al servizio delle scienze naturali, dunque, ma anche draghi per la biodiversità e draghi come metafore del mondo contemporaneo. «Nel 2015, sempre Robert May — deve essersi appassionato al tema, evidentemente — insieme a Andrew Hamilton e Edward Waters, per un primo di aprile, pubblicarono un articolo su Nature in cui usavano i draghi per parlare dei cambiamenti climatici.»

L’articolo, ovviamente umoristico, correlava il trend delle temperature globali a quello delle menzioni di draghi nella letteratura, sostenendo che chiaramente i fenomeni dovevano essere legati tra loro. Temperature più calde: più draghi avvistati. Che occorra limitare le emissioni prima che se ne risveglino troppi?

I draghi però non sono metafore potenti solo per la scienza. «Uno dei miei draghi preferiti in assoluto» racconta Bellone «non è un drago in senso classico. Compare nel romanzo di Michael Swanwick, Cuore d’acciaio, dove i draghi sono l’equivalente dei nostri cacciabombardieri: macchine costruite in fabbrica, dotate di missili e bombe, ma caratterizzate da una personalità, spesso arrogante e distruttiva». Una metafora delle idee di dominio e distruzione che imprimiamo nella tecnologia intorno a noi.

Smok Wawelski

Si dice che il Drago di Cracovia fu sconfitto da un calzolaio che, astutamente, gli fece trovare una pecora riempita di zolfo. Il bruciore alla gola e alla pancia che seguirono indussero la bestia a raggiungere la Vistola per dissetarsi, ingollando acqua fino ad esplodere. Una leggenda simile ad altre che, nei secoli, hanno popolato di draghi l’intera l’Europa orientale.

Il mostro è dunque morto. Oggi rimane una statua attorno a cui si accalcano i bambini. Rimane anche l’immagine del drago come simbolo di cultura, tradizione e, come abbiamo visto, anche di scienza. Perciò, in futuro, quando vedrete un drago, ricordatevi di contare quante zampe possiede.